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Quegli artisti di strada di una volta

Quegli artisti di strada di una volta

di Lorenzo Sartorio

27 Gennaio 2025, 03:01

Gli artisti di strada hanno sempre esercitato un sottile fascino nelle persone di tutte le età per il loro estro, la loro fantasia, il loro candore artistico, il sapere organizzare la loro vita nel modo più avventuroso ed, a volte, rocambolesco e bohèmien ma, soprattutto, all'insegna della massima libertà. Ovviamente, anche gli artisti di strada si sono adattati ai tempi. Giovani e giovanissimi, si possono incrociare nei centri storici delle nostre città sotto forma di mimi, suonatori di violino o chitarra, cantanti, giocolieri. E, a proposito di giocolieri, davvero dolcissimi, sono quei ragazzi e quelle ragazze che, d'ogni tanto, si appostano all'incrocio tra lo Stradone ed il Ponte Italia, donando la loro arte, il loro sorriso e la loro simpatia ai passanti. Gli artisti di strada che anni fa approdavano in città, solitamente nelle piazze che ospitavano i mercati (come non ricordare, in proposito, quelli che brulicavano in Ghiaia), si esibivano con fisarmoniche, violino o altri strumenti musicali mentre un cagnetto, al termine dell’esibizione, con un piattino in bocca, andava a raccattare le offerte, altri ancora mostravano le prodezze della loro scimmietta ammaestrata o del loro pappagallo parlante. I più temerari, invece, sputavano fuoco proprio come lanciafiamme. Gli artisti di strada giravano sia la provincia che i borghi cittadini con la pianola (detta anche «verticale», in parmigiano «viòla») portando in giro il suono della miseria e della speranza le cui note si aggrappavano ai muri scrostati delle case.

Indimenticabili due vecchi artisti di strada «pramzàn dal sas», Pjerón e la Romilda, marito e moglie: lui che trainava la pianola e lei, dietro, che la spingeva e raccattava quei pochi soldi che i passanti deponevano sul piattino oppure che piovevano giù dalle finestre e dai balconi. «Camminavano - descrive poeticamente Enrico Dall'Olio nel suo “Tradizioni Parmigiane” (Grafiche Step editore), senza guardare dove mettevano i piedi ma sempre con gli occhi fissi su quel misterioso arnese canoro disposti a spingere mancando asino e cavallo. L'uomo e la compagna d'avventura facevano quindi il rituale giro tra le gente con la speranza di mettere insieme qualcosa: alzavano gli occhi imploranti alle finestre se mai qualcuno lasciasse piovere qualche spicciolo».

Altri artisti di strada erano i madonnari. I madonnari non disponevano di tele, cavalletti, studi attrezzati, modelle, pennelli e colori di marca. Le «tele» su cui creavano le loro opere erano lastroni in porfido di marciapiedi o di piazze ed i loro «pennelli» erano gessetti colorati avvolti disordinatamente in fogli di giornale. Un tempo girovagavano per città, contrade e paesi, individuavano il luogo adatto, per lo più sotto una tettoia affinché la pioggia o la neve non cancellasse il loro dipinto e, quindi, accucciati come altrettante mondine, incominciavano a dipingere ricamando il porfido con il tratto colorato dei loro gessi che, nel volgere di una mezz’ora o poco più, erano in grado di creare deliziosi visi muliebri di Madonne sorridenti, addolorate, benedicenti, trionfanti, il tutto abbellito con decorazioni di motivi floreali o più classicheggianti tripudi di putti e angeli. Mentre altre volte, con l’intento di sollecitare lo spirito campanilistico dei passanti, disegnavano una Madonna che aveva come scenografia l’ambiente naturale della città o del paese che li ospitava: il fiume, i monti, i campi, il lago, il mare, riuscendo, il più delle volte, a personalizzare il loro dipinto con il «monumento-simbolo» della città e del paese. Anni fa nella nostra città si esibivano in piazza Steccata, dinanzi al Regio e in Ghiaia.

Alla fine degli anni Cinquanta, in occasione della processione della Divina Pastora venerata nella chiesa di San Pietro d’Alcantara, un madonnaro romagnolo disegnò sul selciato del viale pedonale all’inizio dello Stradone, provenendo da via Padre Onorio, una stupenda immagine della Divina Pastora proprio nel giorno della sua festa, il 31 maggio. In segno di gratitudine il mitico padre Silvestro lo invitò a cena nel refettorio del convento che, specie quella sera, profumava di cose buone. I madonnari non avevano una particolare località di provenienza: essi appartenevano un po’ a tutte le regioni italiane, in prevalenza erano toscani o veneti, ma non mancavano siciliani, napoletani e abruzzesi i quali, attraverso i loro dipinti, svelavano la cultura e la religiosità popolare delle loro terre d’origine. Con le mani variopinte causa i gessetti colorati e molte volte con il viso grondante di sudore e «imbellettato» di colore, il madonnaro, una volta terminata la sua opera, la contemplava compiaciuto non senza firmarla e apporgli la data accompagnata dal santo del giorno («dipinse tal dei tali il 2 dicembre... Santa Bibiana»). Attorno al dipinto si formavano crocchi di curiosi: donne, uomini, vecchi e bambini i quali, prima di andarsene, lasciavano cadere una moneta sul dipinto, quasi a consacrarne la validità artistica e tutte quelle monetine, luccicando al sole, assumevano le sembianze di altrettante pietre preziose incastonate sul manto della Madonna. Per lo più, i madonnari, arrivavano in prossimità delle sagre, delle fiere, delle feste grandi come Natale e Pasqua ed adattavano il loro dipinto al momento liturgico. Ad esempio, per Pasqua, la Madonna era ritratta in lacrime accanto a Gesù morente, mentre per Natale la Vergine era immortalata nella grotta unitamente a San Giuseppe e a Gesù Bambino circondati da pecore e pastori. Specie per Natale, il madonnaro lavorava in coppia con gli zampognari abruzzesi ed allora il caratteristico, familiare e caldissimo suono della piva che profumava di festa e di calore umano, attirava gente, mentre il madonnaro poteva esporre il suo dipinto rischiarato dal luccichio dei negozi come accadde per qualche anno in via Cavour.

Anche se la Vergine era la «modella» più cara al «madonnaro», l’artista di strada non esitava, specie in occasione delle sagre patronali, a disegnare i santi protettori: Sant’Antonio circondato da gigli bianchi, «Sant’Antònni dal gozén» con il tradizionale porcellino, Santa Rita circondata da trionfi di rose rosse, San Sebastiano trafitto dalle spade, San Francesco mentre parla al lupo, San Cristoforo mentre traghetta il Bambinello. Nella nostra città non mancava mai alla «Féra äd San Giuzép» ritraendo il santo accanto a Gesù Bambino nella sua bottega di falegname. A questo proposito, straordinaria fu la battuta di una «rezdóra» che rimase particolarmente impressa all’indimenticabile Berto Michelotti oltretorrentino del sasso. Osservando il dipinto che un madonnaro fece in piazzale Bertozzi la popolana esclamò : «San Giuzép l’éra un bräv maringón e ànca un bél òmm. Al maringón indó gh'ò portè il scrani a comodär le brutt e sémpor imbariägh».

Vi erano veri e propri artisti, in grado di produrre dipinti pregevoli e raffinati; altri, invece, raffiguravano Madonne con il volto da «rezdóre» o santi con il viso da «pajzan», ma andava bene anche così per il fatto che, innanzitutto, bisognava sbarcare il lunario, in secondo luogo, la gente faceva la propria offerta a prescindere dalla valenza artistica del dipinto. In occasione delle festività più solenni il madonnaro racimolava qualche soldino per un pasto all’osteria, un paio di toscani e nulla più, mentre negli altri giorni, riuscire a racimolare qualche soldo era impresa veramente ardua. Il dipinto rimaneva sulla strada fintanto che un acquazzone o una nevicata, come accaduto nel tempo di Natale di alcuni anni fa in piazza Steccata, lo cancellassero definitivamente tramutandolo in un rigagnolo colorato. Spariva nel nulla come il suo autore che, ricomposti i suoi quattro stracci, imboccava la strada, sempre in salita, della speranza accompagnato dal lento e caldo suono delle pive degli zampognari o delle traballanti note del «verticäl» di «Pjerón» e la Romilda.

Lorenzo Sartorio

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