Intervista
Sacerdotessa dei palcoscenici, tra ispirazioni e esplorazioni, Elisabetta Pozzi torna a Parma, la «sua» Parma, domani e sabato alle 20.30, a Teatro Due, con «Cassandra o dell’inganno», di cui ha scritto la drammaturgia con il giornalista Massimo Fini; il marito Daniele D'Angelo firma le musiche. Un lavoro sulle scene da parecchi anni ma in continua evoluzione, come spiega Elisabetta Pozzi in questa intervista in cui racconta la sua idea di libertà, che diventa anche libertà di rifiutare il cinema o la tivù.
Questo spettacolo, già visto sia al Due che in Arena Shakespeare, è un suo classico oramai.
«Sì ma cambia, va avanti con me e con la storia. La prima parte l'ho sempre dedicata alle città in cui sono andata, parto sempre parlando della città che mi ospita, di quello che in quella città c'è stato nei secoli».
Con Parma ha gioco facile, l'ha vissuta a lungo, negli anni “stabili” a Teatro Due.
«Mi sono sentita veramente cittadina di Parma. Facendo teatro, diventi parte di una comunità. Ho avuto molta fortuna perché Teatro Due, ben da prima che arrivassi io, era radicatissimo in città. Dagli anni Novanta ai Duemila, un'esperienza per me folgorante».
Cassandra è uno dei miti più tragici del mondo greco: è condannata a vedere il futuro e a non essere creduta. Impotenza e solitudine...
«Tutta la sua storia è pervasa da un profondo senso di inadeguatezza dovuta all'impossibilità di essere creduta per una vendetta d'amore del dio Apollo. Il mito però va interpretato e io mi sono fatta aiutare in questo cammino, quando ho iniziato a scrivere, dalla visione illuminata di Christa Wolf, la quale dice che la veggenza è ben lontana dall'essere un dono divino; è più che altro una capacità tutta umana di leggere i segni cioè di attivare i sensi. Tutti siamo un po' Cassandra».
In che senso?
«In questo momento storico percepisco un malessere: abbiamo la consapevolezza non dico di essere burattini, ma di essere spinti a volte a fare scelte. Vittime... un po' schiacciate».
Le guerre che non vogliamo? Gli algoritmi che scelgono per noi?
«Sì, tutto questo. Faccio un esempio: dirigo la Scuola di recitazione del Teatro Nazionale di Genova e vedo tanti giovanissimi di 18, 20 anni, creature estremamente sensibili che però hanno una visione del mondo devastante, sono consapevoli di non aver nulla in mano e la cosa più grave è che hanno perduto la capacità di immaginare, di creare dal nulla, sono solo copie. Questo è grave. E io non sono una nostalgica».
Guarda sempre avanti.
«Più che altro mi strutturo - visto che, praticamente a 70 anni, ho l'età per farlo - per rimanere vigile. Mi sorprendo sempre, per carità, del bello e dell'orrido, però mi strutturo nel senso che non posso perdere totalmente la mia libertà di scelta rispetto a un pensiero unico che a volte è interessante, a volte non lo è».
In questa voglia di restare libera, si può leggere la sua scelta professionale degli ultimi anni? Quattro premi Ubu, il premio Duse, un David di Donatello al cinema sono un biglietto da visita importante, che la rendono molto ricercata. Eppure in televisione e al cinema non la si vede.
«È così. Con la televisione ho proprio chiuso. Al cinema, quando ogni tanto mi chiamano per dei provini, non ce la faccio... nel senso che faccio di tutto per non andare ai provini o fare il provino malissimo».
Una serie per cui l'hanno chiamata e dove non è andata?
«No, più che le serie sono soprattutto i film. Non credo di poter fare i nomi perché diventerebbe un po' imbarazzante. Il punto è che non mi trovo con quei mezzi, mentre in teatro sono io che gestisco me stessa o comunque mi relaziono con il mio gruppo di lavoro e diventa una cosa creativa, tra due, tre, cinque persone. È la mia libertà di scelta, la mia libertà di divertimento, nel senso più alto del termine. Il più grande interesse per me, in questo momento della vita, è l'insegnamento e l'organizzazione del sistema di insegnamento alla scuola di Genova».
A sua volta ha avuto grandi maestri, a partire da Giorgio Albertazzi.
«Sì! E Luca Ronconi, Luigi Squarzina, Marco Sciaccaluga... ognuno mi ha fatto capire qualcosa di estremamente utile per il mio lavoro. Carmelo Bene era il contrario esatto di Albertazzi e il contrario esatto di Ronconi. L'unica cosa di cui sono orgogliosa di me è che non mi sono mai tirata indietro, anche quando davanti a me c'erano degli ostacoli immensi, ad esempio il lavoro con Carmelo Bene per “Adelchi”. Però mi ha aperto un mondo sull'uso della voce, la “fonè” e da lì ho intrapreso una ricerca che proseguo ancora lavorando con mio marito Daniele sulla musica. Non potrei più immaginare uno spettacolo senza musica».
Mara Pedrabissi
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