Ermes Zappavigna
Non ci sono solo i libri a spiegare la Storia. Capita rarissimamente, ma qualche volta capita, di incontrare la Storia in carne e ossa, in chi l'ha vissuta e l'ha attraversata, a tratti cambiando il corso degli avvenimenti. Uno di questi è senz'altro il maresciallo Ermes Zappavigna, classe 1923, poliziotto dal 1941 al 1983, una leggenda vivente. Ha 101 anni: e dire “portati benissimo” è riduttivo, perché non solo è in splendida forma, ma ha una memoria stupefacente, ricorda ogni “pezzo” della sua carriera: operazioni, date, incontri, superiori e colleghi. Prefetti e questori, pregiudicati e terroristi. Partendo dai lontani anni del fascismo, prima ancora che scoppiasse la Seconda Guerra mondiale, quando era agli ordini di un colonnello della milizia fino agli anni di piombo.
Non è stato facile convincerlo a concedere un'intervista, non ha mai amato i riflettori e tanto meno le conferenze stampa con i giornalisti, a cui, dicono, non si facesse mai trovare. Ma alla fine è arrivato in Gazzetta, accompagnato dall'ex sottufficiale della Squadra Mobile, oggi in Consiglio comunale Giuseppe Tramuta, suo uomo di fiducia e al suo fianco in importanti operazioni di Polizia Giudiziaria. Nessuna incertezza nel passo, lo sguardo vispo e curioso, ha tra le mani fogli di bloc-notes fitti di appunti, e una grande voglia di raccontare. “Cominciamo dall'inizio”, esordisce.
Gli anni del fascismo: i ladri di biciclette e la banda del formaggio
«Sono nato il 6 settembre del 1923 a Coltaro da una famiglia di contadini ma io volevo fare il poliziotto. Così, il 20 febbraio del 1941 vengo ammesso al corso di allievo agente alla scuola di polizia di Caserta. Allora c'erano solo due scuole di polizia in Italia, una a Roma e una a Caserta, dove venni assegnato. Alcuni mesi dopo, supero il corso e vengo trasferito alla questura di Parma. Mi assegnano a 19 anni alla squadra Mobile, comandata dal maresciallo Sala. Quando arrivo, proprio i primissimi tempi c'era il questore Francesco Spanò, ma pochi giorni dopo viene sostituito da un colonnello della milizia, che operava in divisa, ed è rimasto fino alla Liberazione».
E com'era lavorare con un capo fascista?
«La politica contava più di tutto. A quei tempi la squadra Mobile era un ufficio minore, eravamo pochi, mentre la squadra politica era composta da una ventina di elementi, scelti tra i migliori. E l'attività criminosa a quei tempi a Parma era una cosa leggera, ridicola … avevamo il tempo di fare gli appostamenti per i furti di bicicletta. Mi ricordo il primo arresto, quando ero appena arrivato: due ragazzi che avevano rubato in una tabaccheria. Quella fu considerata un'operazione clamorosa. Poi c'erano i furti di biciclette: i ladri le rubavano in città e poi in bicicletta andavano a venderle a Reggio Emilia dove c'era il mercato. Rientravano in treno a Parma con i soldi in tasca. Dopo l'Enza facevamo gli appostamenti e li aspettavamo lì per prenderli quando passavano. Poi Parma viene bombardata, la questura e la prefettura vengono rase al suolo. Fu lo sbandamento generale, per un certo periodo ci trovavamo al mattino in strada in viale Vittoria dove aveva la sede il commissariato dell'Oltretorrente. Dieci giorni dopo ci siamo spostati in via Langhirano: la questura aveva trovato posto in una palazzina, non c'era neanche posto per tutti, ma non c'era più bisogno di operare, la città era vuota, la gente era sfollata, suonava sempre l'allarme, mattina e sera, e noi con le biciclette correvamo verso la campagna. Scappavamo dalle bombe».
Quando tornerete in una sede vera e propria?
«Quando finisce finalmente la guerra la questura si sposta in borgo del Parmigianino. La città si ripopola, rientrano i partigiani dalla montagna, ma riparte forte il crimine, rapine, furti... La situazione è drammatica. Ed è qui che imperversa la banda del formaggio. Colpiva con una violenza inaudita. Poi c'erano anche dei problemi con la polizia partigiana: ne arrestammo alcuni perché sequestravano roba e se la vendevano loro. La polizia partigiana era appoggiata alla questura in attesa di essere del corso per diventare effettivi, si chiamava polizia ausiliaria. Ma Spanò, che era rientrato a Parma dalla questura di Bari, li ha fatti fuori tutti».
Il questore Francesco Spanò, un maestro, un esempio e poi un amico
Il leggendario questore Spanò, è stata una figura centrale nella sua vita.
«E' stato il più giovane questore d'Italia, ed era considerato uno dei migliori di Italia, a Palermo era stato a fianco del prefetto Cesare Mori, il “prefetto di ferro” che lottò strenuamente contro la mafia. Mori era la mente, Spanò il braccio. Sono arrivato con il tempo a volergli bene e a piangere quando è morto. Quando ritorna a Parma, finita la guerra, ritorna la pace in città. Convoca tutti, comincia a far funzionare gli uffici della questura, rinforza la squadra Mobile, io ero ancora agente. Il primo obiettivo era eliminare la banda del formaggio che continuava ad imperversare. Fu in quella circostanza che riuscii a farmi notare da Spanò: ed è stato grazie a un caso. Grazie al fatto che mi piace ballare. Insieme a un mio amico andavo alla sera o in un locale in viale Rustici (dove poi ci fu la piscina) o nel giardino d'inverno al parco Ducale. Con una ragazza con cui ballavo sempre avevo stabilito un bel rapporto di amicizia. Ogni tanto però mancava e, indagando, seppi che in famiglia aveva dei problemi a causa del fratello che faceva una vita strana, al di sopra delle sue possibilità, e litigava sempre con il padre. Venni così a sapere che era un componente della banda del formaggio. Identificammo il fratello e da lui, arrivammo agli altri complici e li arrestammo, da lì conquistai la fiducia di Spanò».
La trasferta a Palermo per dare la caccia al bandito Giuliano
La missione in Sicilia fu un momento cruciale della sua carriera e della sua formazione. Ce ne vuole parlare?
«Arriviamo al 1 maggio 1947 giorno della strage di Portella della Ginestra a Piana degli Albanesi, quando la banda di Salvatore Giuliano sparò contro la folla di contadini riuniti per celebrare la festa dei lavoratori provocando undici morti e numerosi feriti . Per questo episodio il ministro dell'Interno Mario Scelba nomina Spanò ispettore generale per la lotta contro il banditismo in Sicilia. Mi ricordo quel giorno: era il 2 maggio, alle 16 ero in ufficio, si presenta l'usciere e mi dice: vai giù di corsa dal questore. Spanò era al telefono con il capo della Polizia. Mi sono rimaste in testa le sue parole: stasera parto, sono trasferito in Sicilia, lei viene con me, vero? E io: sissignore. Per me è stato un momento di felicità immensa. Sapere che un uomo come Spanò partiva per questa missione contro il banditismo e portava me come uomo di fiducia al suo fianco … è stato come toccare il cielo con le mani. Vado a casa e lo dico ai miei. Sei obbligato ad andare? mi chiese mio padre; ma non ti rendi conto che ha scelto me, gli risposi. Mio padre pensò a voce alta: abbiamo un figlio solo ed è matto. Ma io ero al settimo cielo. Alla sera prendiamo il treno e partiamo per Roma. Ci aspetta la macchina che ci porta al Ministero dell'Interno, Spanò va a colloquio con il capo della polizia e poi con il ministro Scelba. Poi dall'aeroporto andiamo a Palermo. Avevamo gli uffici in piazza Massimo. Spanò voleva fare piazza pulita attorno a Giuliano, colpire i collaboratori più vicini a lui: così crea un posto di polizia fisso a Montelepre dove era nato Giuliano e dove c'erano i suoi familiari. Oltre a me, dalla Mobile di Parma aveva portato anche altri due bravi collleghi, Ballarini e il dottor Lo Moro. Scattarono molti arresti tra i collaboratori, gli amici e i parenti di Giuliano. Prendemmo anche elementi di spicco del clan, come il cognato. Giuliano era impazzito, scriveva lettere di minacce a Spanò...“In poco tempo t'ammazzo e mangerò il tuo fegato”. La situazione cominciò a diventare pericolosa. Fino a quando, un giorno, siamo seduti al tavolino di un bar con altri dirigenti. Spanò mi era di fronte, mi guarda e con un cenno degli occhi mi indica un ragazzo che stava venendo verso di noi, ci capiamo subito: io mi ci butto addosso, lo blocco e lo disarmo. Lo arrestiamo: confessò che stava per sparare a Spanò su incarico di Giuliano. Oltre alla pistola, addosso aveva una copia della circolare che il questore aveva fatto pochi giorni prima per determinati servizi. Qualcuno dall'interno gliel'aveva fatta avere: scoprimmo così che c'era una talpa, uno dell'ambiente che aveva diffuso le direttive del questore. Il ministro Scelba venne informato ma tutto finì in nulla “per ragioni di stato”.
Un'esperienza straordinaria, per un giovane poliziotto di soli 24 anni...
«Fu così. Ma per me avere salvato la vita in quella circostanza al questore Spanò, una persona a cui volevo veramente bene, mi ha fatto vivere fino ai 100 anni.
Spanò poi per questioni di salute (si ammalerà gravemente e morì pochi anni dopo ndr.) chiede e ottiene dal Ministero di tornare alla questura di Parma con i suoi collaboratori. Rientriamo a Parma, faccio gli esami a Roma e nel luglio del '48 con il grado di vicebrigadiere vengo trasferito alla questura di Parma. Tre giorni dopo vengo convocato da Spanò che mi annuncia: da domani sarai il nuovo comandante della squadra Mobile. Ero giovane e avevo una grande responsabilità.. ero il più giovane comandante di squadra Mobile d'Italia».
E qui la voce s'incrina, per qualche secondo l'emozione prende il sopravvento sul racconto. Ma è solo un attimo, perché su quei fogli ci sono appuntate tante cose da ricordare.
Prima operazione da capo della Mobile: sgominata la banda dei falsari
Cosa ricorda dei primi tempi da capo della Mobile?
«Una cosa sempre legata al fatto che mi piaceva ballare. Sotto piazza Garibaldi si ballava il liscio, e ci andavo spesso. Notiamo un tizio che fa più consumazioni, lo teniamo d'occhio e vediamo che entrava e usciva da altri posti pagando con una banconota. Lo fermiamo, lo identifichiamo: era un genovese con in tasca un pacco di banconote false. Lo interroghiamo: “Dimmi dove hai preso queste banconote: non ti arresto, ti denuncio a piede libero se collabori. Essere leali anche con i pregiudicati: me lo aveva insegnato Spanò. Riesco a farmi dare un indirizzo di Genova, via XX Settembre, lì c'era un suo amico che gestisce l'attività illecita insieme a un tipografo. Arriviamo in quella casa e troviamo il falsario, l'attrezzatura e le banconote false stese sul filo. Poi aspettiamo il correo e lo arrestiamo. Spanò convocò tutti in questura: “Qualcuno ha criticato il fatto che io ho messo Zappavigna a capo della Mobile - disse - : ma questi risultati dimostrano che io avevo ragione».
Servizi segreti e anni di piombo
Arriviamo alla fine degli anni Sessanta, inizi Settanta, il maresciallo Zappavigna affronta la stagione del terrorismo: dagli attentati dell'eversione nera, agli anarchici di Prima Linea che ebbero un ruolo di primo piano anche a Parma, fino alle Brigate Rosse.
Entra nei servizi segreti e gli vengono affidati delicati incarichi a Roma. Le sue indagini superano i confini di Parma e dell'Emilia, e si ramificano in numerose città d'Italia. Brescia, Milano, Torino, Padova. Zappavigna viene messo a capo di un nucleo speciale, le operazioni portate a termine furono tantissime.
Da dove cominciò questa nuova attività?
«L'allora capo della polizia Giovanni Coronas - racconta il maresciallo- costituisce un nucleo antiterrorismo composto da pochi uomini e mette al comando il sottoscritto, con il compito di agire alle dirette dipendenze del questore e del capo della Polizia. Io per questo ero convocato ogni 15 giorni a Roma».
Il maresciallo ricorda bene e con orgoglio una delle operazioni più importanti della sua carriera: essere arrivato a due responsabili della strage di piazza della Loggia a Brescia, l'attentato terroristico di matrice neofascista compiuto il 28 maggio 1974 a Brescia.
«Tutto iniziò da una rapina in banca a Golese. I rapinatori erano poi scappati in auto, abbandonandola vicino all'autostrada. E da lì si erano dati alla fuga su una moto. Riusciamo a scoprire l'identità dei due malviventi già schedati per reati legati al neofascismo. Poi arriviamo ad identificare l'amante di uno dei due, mettiamo i telefoni sotto controllo, quando durante la conversazione la donna dice: “Salterà fuori anche la bomba che abbiamo messo a Brescia?” Il rapinatore era dunque coinvolto nella strage di piazza della Loggia. Siamo stati noi a scoprirlo. Lui venne arrestato all'hotel Maria Luigia. Poco dopo finì in manette anche il suo complice. La donna fu incriminata. Abbiamo fornito la prova di queste due persone coinvolte nella strage, e consegnato il rapporto alla Procura di Brescia».
Sono anni terribili e violenti quelli: nel febbraio del 1975 la Mobile del maresciallo arrestò gli anarchici Abatangelo e Saccani: «Evasi entrambi e armati, si erano rifugiati Parma perché stavano organizzando il sequestro di Salvarani. Li arrestiamo e mandiamo in fumo il loro piano criminale».
Due anni dopo arriva la clamorosa scoperta del covo di borgo Santa Caterina al numero 33. «Avevo organizzato appostamenti ovunque, nelle case attorno di via Bixio e addirittura nel teatro Ducale in via Costituente. L'appartamento era affittato da un sardo, commesso modello di un negozio di formaggi in Ghiaia, un insospettabile. Attraverso lui arrivammo a quel covo dove c'era un arsenale di mitra, pistole, bombe a mano. L'operazione si concluse con l'arresto di quattro terroristi, tre uomini e una donna». La memoria di Zappavigna è cristallina, i ricordi sono tantissimi, nitidi e si inseguono: dai brigatisti arrestati in varie zone dell'Italia, a Roma, a Bologna, Brescia alla liberazione del generale Dozier nel 1981, una delle ultime operazioni del maresciallo. «Fu sequestrato a Verona, liberato dopo 42 giorni a Padova dove era stato trasferito un ex questore di Parma, Corrias. Il primo interrogatorio al custode lo feci io. Anche qui le indagini partirono da un insospettabile. Il generale venne liberato dai Nocs, ma eravamo stati noi a guidarli».
Vent'anni in Parmalat
Arriviamo quindi ai primi anni '80. Zappavigna viene nominato Cavaliere al merito della Repubblica. Per lui si spalancano le porte della pensione. Ma del cosiddetto “meritato riposo” non se ne parla neanche: il maresciallo apre un altro lungo capitolo della sua vita, che durerà vent'anni. Come è andata, ce lo spiega?
«Mi convoca il capo della polizia Coronas, e mi dice: potrei farti restare ancora un anno in servizio, ma ho un'altra cosa in mente per te. Ti farò diventare un consulente dei servizi segreti. Lavorerai a Roma, andrai e tornerai. I miei non erano d'accordo perché, conoscendomi, sapevano che non sarei mai stato a Parma. Quindi rifiuto quell'incarico. Conoscevo bene Callisto Tanzi perché aveva subito un tentativo di estorsione quando ero alla Mobile. E avevo un ufficio a Collecchio per lavorare là: volevo avere un contatto diretto con gli estorsori. Era stata un'operazione difficile ma bella: alla fine a Bari arrestammo i responsabili dell'estorsione.
Tanzi quindi mi conosceva bene e mi chiamò: “Ho saputo che va in pensione, mi disse. Avremmo il piacere di averla con noi. Le affiderei la direzione dei servizi di sicurezza di tutta la Parmalat Italia e estero: le do un assegno e scriva lei la cifra che vuole”. E così non sono entrato nei servizi segreti allora.
Ma come avvenivano queste estorsioni?
«La Parmalat in quel periodo ha avuto 13 estorsioni. La prima estorsione telematica fatta in Italia è stata ai danni della Parmalat. L'autore era un ingegnere informatico. Inizialmente loro scrivevano e noi rispondevamo con dei messaggi criptati sul Corriere della Sera. Le cose sono andate avanti così per un po' di tempo. Poi gli abbiamo fatto capire con dei messaggi che per andare avanti era meglio che prendessero contatto con il dottor Gerbella (che non esisteva, era il cognome di mia nonna paterna)... quindi passavano le telefonate a me. Due, tre mesi di contatti.. avevo lavorato bene al punto che li avevamo convinti che eravamo decisi a pagare. E a un certo punto Tanzi li voleva pagare: 500 milioni delle vecchie lire. Ci fanno trovare delle confezioni di latte con la stricnina dentro in un supermercato di Crema. Mi chiama Tanzi e mi dice: “Zappavigna a questo punto noi rischiamo troppo, perché se anche qualcuno non muore ma va all'ospedale, noi non vendiamo più un litro di latte nel mondo”. Io rimasi sorpreso e gli risposi che se voleva pagare doveva trovare un'altra persona. Si arrabbiò, era come disgustato dalla mia risposta: “ma come? nel momento più delicato lei mi tradisce?” Per me sarebbe stata una sconfitta. E poi io sentivo che c'eravamo quasi.
Mi dia ancora una quindicina di giorni, e vediamo cosa succede. Avevano accettato di riscuotere solo agli sportelli bancomat della Cassa di risparmio, ogni prelievo era un punto a nostro favore. Al Cavagnari avevo messo in essere un dispositivo che da qualsiasi sportello d'Italia, veniva registrato dove stessero facendo il prelievo. In questo modo potevamo fare gli appostamenti “mirati”. E uno andò a buon fine, li arrestammo a uno sportello di Modena vicino all'autostrada: un ingegnere e un commercialista impiegato in Regione. Alla fine avevo avuto ragione io».
Paola Guatelli
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