intervista
Un grande mantello, una lunga chioma bionda, un esercito di tastiere. Quella è l’immagine - un po’ pacchiana ma figlia dei tempi - impressa nell’immaginario collettivo dei rockettari quando parli di Rick Wakeman. Ma sotto il mantello ci sono anche una solida preparazione classica, una straordinaria fluidità sui tasti e un curriculum impressionante: la gloria arrivò con gli Yes, una delle band prog più grandi di sempre, ma le tastiere di Wakeman si sono intrecciate con gli Strawbs e - in studio - con giganti del calibro di Elton John, David Bowie, Lou Reed, Black Sabbath. Di più: a metà anni ’70 Wakeman inventò un genere, quello delle opere rock in chiave storico-letteraria, evoluzione della via tracciata anni prima da Keith Emerson.
Wakeman ha consegnato alla storia album leggendari come «The Six Wives of Henry the VIII», «Journey to the Centre of the Earth» e «The Myths and Legends of King Arthur and the Knights of the Round Table» che fra il 1973 e il 1975 definirono il genere ma anche i suoi limiti intrinseci, dal gigantismo all'autocitazione.
Dopo oltre mezzo secolo di musica Rick Wakeman resta un fenomeno delle tastiere e uno degli alfieri di una generazione irripetibile ancora in grado di calcare i palcoscenici. Per questo l’occasione di vederlo a Parma - domenica 2 marzo all’Auditorium Paganini - è di quelle da non perdere sia perché contiene nuovo brano musicale, “Yessonata”, che in trenta minuti intreccia temi e melodie degli Yes in forma di sonata, ma anche perché Wakeman, classe 1949, ha annunciato che si tratta del tour d’addio, quanto meno alle esibizioni soliste.
«Final Solo Tour», dunque: sarà davvero l’ultima volta che vedremo Rick Wakeman sul palco?
«Mi auguro di no, ma confermo che mi esibirò più in concerti per solo pianoforte. Se in futuro suonerò ancora dal vivo sarà con altri musicisti o con un set più ampio di tastiere».
Che sensazioni dà un concerto per piano solo?
«Amo suonare, cambia poco che sia da solo o con una band o un’orchestra. In fondo per tutta la vita non ho fatto altro...»
Nel creare un set dal vivo bisogna pescare da un catalogo piuttosto ampio. Come avviene la scelta?
«Ecco, questo è il punto... Sono inondato di richieste sul mio sito da parte dei fans perché suoni questo o quel pezzo e io prendo nota di tutto. Cerco di includere quello che credo la platea abbia voglia di sentire. Ma poi ci infilo sempre qualche sorpresa…»
I primi epici album solisti erano inconfondibilmente figli degli anni ’70. Come hanno retto nel tempo?
«Non credo che una partitura debba necessariamente avere una data impressa. Nessuno ad esempio la mette sulle opere di Beethoven, Mozart, Verdi o Vivaldi, quindi perché mai musica composta alla fine del ‘900 dovrebbe essere differente? Credo che molta di questa musica sopravviverà anche il prossimo secolo. Almeno se il pubblico la considererà degna di essere ascoltata…»
Di recente ha riproposto l’esecuzione completa di Journey to the Centre of the Earth, album del 1974 tratto dal libro di Jules Verne. Come è stato?
«Assolutamente fantastico, mi sono divertito tantissimo. E… mi piacerebbe proporre quel tipo di concerto anche in Italia».
La storia di Rick Wakeman è legata a filo doppio con quella degli Yes. Quali sono gli album preferiti?
«Penso che il migliore sia Close to the Edge. Ma sono grandi album anche Fragile e Going for the One».
Qual è il contributo di Rick Wakeman alla storia della musica?
«Bella domanda, ma non credo di essere io quello titolato a rispondere… Forse è meglio chiederlo al pubblico a cui piace la mia musica».
Nei set dal vivo spesso compaiono brani che il grande pubblico non collega immediatamente a Rick Wakeman, uno su tutti è Life on Mars di David Bowie. Come è stato lavorare con altri grandi artisti?
«Nei primi anni ’70 era una prassi comune e per un musicista ricca di gratificazioni. Erano gli anni d’oro delle registrazioni in studio e mi hanno dato molto».
Ascolta la musica di oggi?
«Non per scelta. Forse se mi capita alla radio il mio subconscio qualcosa ascolta…»
Nulla di interessante?
«Sì, cambiare canale e seguire lo sport!».
Aldo Tagliaferro
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