Intervista
Fate largo al factotum della città. Al Teatro Regio, domani alle 20, torna infatti il barbiere più famoso di tutti i tempi, quello di Siviglia musicato da Gioachino Rossini. L’amatissima opera del pesarese va in scena a distanza di un solo anno, secondo titolo della Stagione lirica, con lo stesso “storico” allestimento firmato da Pier Luigi Pizzi.
Sparigliato invece completamente il cast ad eccezione del mezzosoprano siberiano Maria Kataeva che vestirà di nuovo i panni di Rosina, un personaggio che ha debuttato quasi quindici anni fa, quando era nel programma giovanile della Deutschland Oper am Rhein a Düsseldorf.
Maria canta in sei lingue. Russo e italiano sono quelle che preferisce, tanto da non temere gli spericolati virtuosismi con testo fittissimo della scrittura rossiniana che pronuncia con perfetta dizione.
Maria, ormai Rosina è per lei un cavallo di battaglia, l’ha cantata anche al Rof. Un personaggio attuale, una ragazza alla ricerca della propria identità e libertà ma anche dell’amore. Come le piace renderla?
«La prima volta che ho sentito la cavatina di Rosina è stata in una registrazione di Maria Callas. Mi sono innamorata subito di questa musica anche grazie al carisma della grandissima cantante. Rosina è forse uno dei caratteri più famosi dell’opera buffa italiana. È scaltra, furba, molto istruita. Se ne accorge subito Figaro, quando scopre un biglietto per l’amante Lindoro, già bell’e pronto! Lei è artefice del suo destino, faber fortunæ suæ, una donna “moderna”, che non accetta il sopruso ed è mossa verso l’amore. Ovviamente, non siamo ancora in un teatro psicologico di fine Ottocento, ma questo carattere è ben riconoscibile in una musica fresca, furba e nel suo famoso “ma…” dell’aria, la cui pausa seguente deve essere piena di significato».
Vocalmente quali sono le sfide del ruolo, dal suo punto di vista?
«Sono le solite di Rossini: le grandi agilità, frasi legate e lunghe, ma soprattutto la necessità di mantenere una freschezza e una giocosità anche nelle difficoltà tecniche, l’arte di celare l’arte, dicevano gli antichi. E in effetti è proprio così: cantare Rosina è un gioco, forse un difficile gioco, ma pur sempre un gioco, un esercizio di leggerezza. Sa, poi il finale di quest’opera, in un certo senso, mi appartiene, mi parla perché è costruito su una canzone popolare russa, “Akh, zachem bylo ogorod gorodit?” (“Ah! Perché c’era un recinto intorno al giardino?”); l’idea venne a Rossini dalla conoscenza con la vedova del generale Kutuzov, che divenne poi un’amica per la famiglia Rossini. Quando arrivo alla fine dell’opera penso sempre a questo e mi piace immaginare che Rossini, attraverso i secoli, stia strizzando l’occhio proprio a me, magari in senso di approvazione!».
Cosa le manca della Siberia?
«Le foreste e la neve. Purtroppo torno a casa raramente, ho un calendario molto fitto di impegni e mio figlio ha già iniziato la prima elementare».
Le piacerebbe, in futuro, arrivare a cantare Verdi?
«Sì! Vedo la possibilità che la mia voce si esprima in un repertorio più drammatico. Il ruolo dei miei sogni è interpretare Eboli nel Don Carlo e mi piacerebbe tornare qui tra qualche anno e cantare qualcosa del grande Maestro».
Ilaria Notari
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