INTERVISTA
L'irruzione di Donald Trump sulla scena politica mondiale rappresenta il momento più estremo e dirompente di una reazione a quella che potremmo definire la gestione «politicamente corretta» dell'economia: ovvero i criteri «Esg» (environment, sustainability, governance) per ridefinire il criterio un po' antiquato della massimizzazione del profitto a favore di una gestione - in primis delle aziende - rispettosa dell'ambiente, della collettività, della dimensione sociale.
Se la strada virtuosa pareva solidamente avviata verso questi principi, negli ultimi tempi il clima sembra mutato come ci siamo accorti in Europa sul tema della transizione ecologica nel settore della mobilità.
Ne parliamo con Paolo Andrei, professore ordinario di Economia aziendale nel nostro ateneo, di cui è stato anche rettore, per capire a che punto siamo.
Professore, oggi la chiave della sostenibilità, in un contesto di radicale cambiamento del clima geopolitico, può essere ancora considerata una leva strategica per le imprese?
«Occorre chiarire immediatamente un concetto: la sostenibilità è una prospettiva di azione che, se innestata nei principi cardine della gestione aziendale, produce benefici tangibili di varia specie per le aziende che l’adottano. È evidente, però, che esiste, come per ogni politica aziendale, un divario tra il momento in cui si decide di adottarla e il momento in cui si traggono i benefici degli interventi realizzati. Un’azienda che decide di prendere seriamente in considerazione la sostenibilità delle proprie azioni sviluppa un sistema di management nel quale, oltre alla dimensione economico-finanziaria, diviene importante considerare gli impatti sociali e ambientali del proprio agire. Se questa prospettiva viene adottata in modo serio e convinto a tutti i livelli dell’organizzazione aziendale, si effettuano investimenti che nel medio periodo producono benefici di varia specie: ad esempio, riduzione dei consumi connessi ai materiali e all’energia impiegati nei processi produttivi, maggiore senso di appartenenza da parte delle persone che operano in azienda, maggiore propensione all’innovazione, aumento della reputazione aziendale. Sono convinto, quindi, che a prescindere dai cambiamenti geopolitici cui stiamo assistendo, scegliere la via della sostenibilità sia una strada vincente e virtuosa per il bene delle aziende, oltre che delle comunità cui esse appartengono e del pianeta che abitiamo».
Chi si è mosso per tempo ispirandosi ai principi Esg sta realmente cogliendo i frutti?
«Dovremmo porre questa domanda alle tante imprese, anche di piccole dimensioni, che hanno scelto di percorrere questa via. In tantissimi casi lo hanno fatto in aderenza ai valori e alla cultura di cui l’azienda è portatrice, in altri per emulazione di altre imprese di successo operanti nello stesso settore, in altri ancora perché indotte da specifiche normative. Nella generalità dei casi, come dimostrano svariate ricerche scientifiche in campo economico-aziendale, i benefici sono stati tangibili e hanno prodotto una crescita aziendale armonica sotto tutti i profili della gestione. Al di là della grande enfasi che in questi ultimi anni è stata riservata alle problematiche Esg, il tema è stato sempre presente nel contesto delle aziende. Per fare il bene dell’azienda non è mai stato sufficiente assegnare al management una funzione mono-obiettivo e abbiamo visto i disastri (e le crisi globali) cui ci ha portato la cultura neoliberista che postula l’esistenza di un solo obiettivo: la massimizzazione dei profitti o la massimizzazione del valore azionario dell’impresa. Molte imprese hanno da tempo capito che per perseguire il bene e la durabilità dell’azienda occorre integrare nelle strategie di business anche la dimensione ambientale e le dimensioni sociali di cui l’azienda è portatrice. E insisto, non si tratta di essere “buoni” o di confondere la filantropia con il business. È il bene dell’azienda che, nelle diverse forme in cui si manifesta, esige di tenere in considerazione le dimensioni sociali e ambientali della gestione per garantirne lo sviluppo durevole».
Quanto è importante che le imprese producano una rendicontazione riguardante le azioni compiute e i risultati raggiunti in materia di sostenibilità?
«La rendicontazione di sostenibilità assume caratteri di grande rilievo sotto i profili sia interni che esterni alle aziende. Per l’azienda e la sua organizzazione interna il processo di rendicontazione obbliga a rendere più strutturato e consapevole l’approccio aziendale alla sostenibilità, individuando preventivamente le azioni, e le connesse aree di responsabilità, che possano permettere il raggiungimento degli obiettivi prefissati, verificando a consuntivo i risultati raggiunti e il loro divario rispetto a quanto pianificato e programmato. Per l’esterno, invece, la rendicontazione prodotta dalle imprese diviene essenziale al fine di comprendere i risultati della gestione aziendale non solo sotto il profilo economico-finanziario, ma avendo un quadro d’insieme che tenga conto di tutti gli ambiti in cui l’impresa produce impatti significativi.
Penso sia evidente come la redazione della rendicontazione di sostenibilità sia la risultante di un processo ampio: se l’azienda e il suo management sono consapevoli della molteplicità degli obiettivi aziendali atti a garantire il bene e lo sviluppo duraturo dell’azienda stessa, gli obiettivi programmati necessitano di sistemi gestionali e di rendicontazione efficaci per monitorarne il grado di raggiungimento, e poter così procedere alla definizione di nuovi obiettivi futuri. Detto con parole molto semplici, non si può “rendicontare ciò che non si fa”, e per “fare” occorre prima programmare le azioni da compiere per, poi, concretamente realizzarle e valutarle.
La Commissione europea con il «pacchetto omnibus» sta pensando di procedere alla modifica alla disciplina della rendicontazione di sostenibilità. Un correttivo giusto?
«Certamente il “pacchetto omnibus” mira a introdurre significative semplificazioni negli obblighi derivanti dall’attuale normativa in materia di rendicontazione di sostenibilità. Queste semplificazioni, a mio parere, possono essere analizzate secondo molteplici prospettive. Da più parti, dopo l’emanazione della Direttiva europea (la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), recepita in Italia con il Decreto Legislativo n. 125/2024), si è levata la richiesta di una semplificazione degli obblighi di rendicontazione, sia per quanto attiene ai loro contenuti – giudicati, spesso a ragione, troppo dettagliati e complessi – sia per quanto riguarda la platea delle aziende obbligate alla redazione dei report di sostenibilità. Non sappiamo ancora come le indicazioni del “pacchetto omnibus” saranno recepite dalla normativa europea e dai legislatori nazionali, ma la speranza è che si arrivi a una formulazione più semplice - e, quindi, più incisiva e più fruibile - rispetto all’attuale che permetta veramente di comprendere quanto un’azienda si impegna sulla frontiera della sostenibilità e con quali risultati.
A mio parere, peraltro, la standardizzazione dei princìpi che informano la rendicontazione di sostenibilità costituisce un passo in avanti decisivo, soprattutto perché favorisce la comparabilità dei risultati conseguiti nell’ambito della stessa unità aziendale nel tempo e il confronto tra le azioni compiute da aziende diverse. D’accordo, quindi, con la semplificazione, purché non si elimini la richiesta di informazioni rilevanti e non si rimuova il tema per una platea troppo vasta di operatori.
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