Tutta Parma
In occasione della Domenica delle Palme («Domenica ‘dl ‘Oliva»), una volta, anche chi non frequentava molto le funzioni religiose ed era un credente un po' a modo suo, non mancava mai di andare in chiesa a prendere il rametto d’ulivo benedetto.
Per le «rezdóre», poi, era un compito primario appenderlo sul camino, sotto il quadro della Madonna nelle camere da letto e davanti alla statuetta di «Sant'Antonni dal gozèn» che vegliava la stalla.
Inoltre, l’ulivo benedetto, era un antidoto contro la grandine. Infatti, nelle nostre campagne, le donne quando, in cielo, il «Buz ‘dla Jacma» diventava scuro e c’era la minaccia di un temporale, si radunavano sotto il portico e, con la candela benedetta nel giorno della «Candelora» («Serjóla»), bruciavano le foglie essiccate dell'ulivo recitando la supplica a Sant'Antonio Abate, non solo protettore delle bestie, ma anche nume tutelare dei contadini contro terremoti, grandine e catastrofi varie con la speranza che il temporale risparmiasse il raccolto. «Oh trionfatore del Demonio indarno armato in multiformi maniere contro di Voi, Sant'Antonio Abate, proseguite la vittoriosa opera vostra su l'inferno congiurato ai nostri danni. Da quei colpi funesti salvate le anime nostre, fortificandole nelle spirituali battaglie: ai nostri corpi impetrate costante la sanità. Dilungate dagli armenti e dai campi ogni maligno influsso e la vita presente vostra mercé, tranquilla per noi, ci sia saggio e apparecchio alla pace perfetta della vita eterna». A volte le implorazioni non potevano nulla mentre, in alcuni casi, dopo i minacciosi brontolii del tuono, lampi e abbondanti scrosci d’acqua, un variopinto «ärcbaléstor» (arcobaleno) sciabolava il cielo dipingendo con i colori dell’iride quei chicchi gialli e neri d’uva che la natura e l’antica saggezza dell’uomo avrebbero trasformato in brioso lambrusco e in profumata malvasia.
Oltre l’ulivo anche l'uovo, sinonimo di vita e di rigenerazione, era il simbolo della Pasqua. Nelle nostre campagne, l'uovo, era tenuto nella massima considerazione dalla «rezdóra» che lo aveva associato giustamente alla primavera quando il pollaio comincia a rianimarsi e a... pigolare. Le uova, nel periodo pasquale, venivano fatte benedire dal prete quando passava dalle case per le benedizioni, venivano dipinte con vari colori dai ragazzi per il gioco dello «scoccino» che si svolgeva, solitamente, la mattina di Pasqua sul sagrato della chiesa. Le uova venivano fatte bollire e, quando erano sode, venivano colorate. Gli sfidanti, dovevano battere l'uovo, l'uno contro quello dell'altro. Il primo, al quale si rompeva il guscio del proprio uovo, era sconfitto. L'uovo pasquale, oltre che di cioccolata per la gioia dei bambini che al suo interno rinvenivano la sorpresa, rappresentava pure l'ingrediente principale di tutti i piatti primaverili e pasquali. Ad esempio, le asprelle novelle venivano messe in tavola insieme alle uova sode («óv dur»). E poi le appetitosissime frittate con le primaverili erbe dei prati e dei fossi: ortica, erba cipollina, «avartìz», per non parlare dei funghi prugnoli.
Quando le «rezdóre» volevano fare bella figura e preparare una sfoglia o una torta che diventassero di un bel giallo, allora, utilizzavano le uova delle galline «francesine», il mangime delle quali era impreziosito da alcune ruffiane manciate di «melgón» (mais) che consentiva all’uovo di divenire di un giallo marcato, quasi rosso. Queste ultime erano comunemente chiamate dalle donne «óv da sjòr» mentre quelle di tutti giorni, non adatte per fare la sfoglia, in quanto il tuorlo era un po' più pallido, erano chiamate «óv da povrètt». Siccome la primavera poteva dare un po' «äd fjàca», ai ragazzi - una volta vitamine o ricostituenti vari non esistevano o, se c’erano, erano talmente cari al punto di essere inaccessibili per la non certo brillante condizione economica del mondo contadino - mamme e nonne preparavano una dolcissima «mestùra» a base di uova (tuorli e gusci), zucchero e alcol. Un autarchico «Vov» che, dopo un giusto periodo di macerazione, veniva somministrato al mattino ai ragazzi i quali, oltre la zuppa di pane secco nel latte, ingurgitavano questa «bomba» calorica che, considerate le ristrettezze dei quei tempi anche a tavola, non creava certo problemi di sovrappeso.
Nella Settimana Santa la radio rimaneva spenta, nelle case dei più devoti venivano coperti gli specchi da drappi viola, mentre le anziane preparavano i lumini da accendere sui davanzali per il passaggio della processione col Cristo Morto del Venerdì Santo. Ovviamente le «rezdóre», oltre alle preghiere in casa, pensavano anche a quelle da recitare in cucina per il pranzo di Pasqua e Pasquetta. Ritornavano, allora, alla ribalta gli anolini in brodo di manzo e gallina e, come secondi, entravano in scena i tradizionali lessi tra i quali non poteva certo mancare una ruspante e prosperosa gallina che sostituiva il cappone molto più utilizzato per il pranzo natalizio. Con i lessi non poteva mancare al «pjén» che, una volta preparato con pane, formaggio, uovo, prezzemolo e una spolverata di noce moscata, veniva fatto galleggiare come un sommergibile nel brodo. Mentre numerose «rezdóre» usavano confezionare anche la «picaja», ossia la cima ripiena bollita che, data l’abbondanza di uova stagionali, prevedeva un ripieno straordinario dove il «parmigiano» giocava un ruolo rilevantissimo come pure quelle uova freschissime che conferivano all’impasto un bel giallo polenta.
E non finiva qui. Gli arrosti erano di agnello o capretto (in collina e in montagna) mentre in città e nel contado si optava per il coniglio o il galletto in padella con contorno di patate, rigorosamente tagliate a spicchi e fritte «in-t-al dolégh» (strutto).
Come dolce, le nostre «rezdóre» non avevano dubbi e, per Pasqua, mettevano in tavola la ciambella («bosilàn») che, tradizionalmente, veniva intinta nel vino bianco come auspicio di fortuna e salute.
A Pasquetta c’era, invece, il rito di fare una scampagnata «fuori porta» . Si approfittava proprio di questa ricorrenza per «andär a parént», stare un po’ all’aria aperta per uno spuntino e «par catär su il vjóli in-t-i fòs». E, per concludere in bellezza, un piacevole amarcord datato 1968. Solitamente, le strenne escono per Natale; in quell’anno, ne uscì una per Pasqua che ritraeva in copertina alcuni dei personaggi più noti e popolari della Parma di quel momento: da Enzo Baldassi ad Alberto Michelotti, Cesare Gherri, Gian Carlo Saracchi, Andrea Moisè (battagliero esponente della fiamma missina), Nando Calestani (bandiera dello scudocrociato parmense), Ermes Polli (il famoso «Pelino» per i tifosi crociati), Giuseppe Negri, Vittorio Adorni, Valdo Franceschi e, ovviamente, l’impeccabile cerimoniere del Comune commendator Peppino Ferrari. Fu una bella sorpresa, tutta «pramzana», dentro l’uovo dei parmigiani.
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