LA STORIA
Il più giovane combattente per la libertà allora, il veterano oggi. Ultimo dei reduci della Resistenza parmense, Ermanno Scagliola il 25 aprile del 1945 era un bambino. O forse aveva già smesso d’esserlo poco dopo l’8 settembre del 1943, quando ancora non aveva compiuto otto anni e la Penisola, oltre che dal conflitto tra tedeschi e alleati, era stata divisa dall’armistizio. Ossia dalla firma che avrebbe dovuto affrancarla dalla guerra. A nord di un fronte che arretrava al rallentatore, l’Italia era occupata e lacerata: Valtaro e Valceno erano ferite sanguinanti e Compiano snodo di una storia più grande di sé, dove il tempo scorreva brutale e accelerato. In una frazione, Sambuceto, il 15 dicembre del ‘43, uomini con un carico d’armi del Gruppo Penna guidati da Cosimo Caramatti avevano già messo in fuga una pattuglia di carabinieri: il primo scontro del Parmense, forse dell’intera Emilia. Armata di doppiette, la gente di Caboara, Groppo e Arola aveva poi respinto un rastrellamento. Poco dopo, comandato da Fermo Ognibene, il gruppo che avrebbe formato il primo nucleo del battaglione Picelli della Garibaldi di Parma a Strela aveva disarmato e ricacciato al presidio di Bedonia 25 militi di Salò.
Compiano, piccola capitale
La situazione stava sfuggendo di mano: podestà e segretario del Partito fascista repubblicano sloggiarono. L'antica roccaforte dei Landi si concesse perfino il lusso di festeggiare il Primo maggio, per poi diventare dal 18 giugno sede del governo del Territorio libero del Taro, la neonata repubblica partigiana estesa dal passo del Bocco a quello delle Centocroci, dal Molinatico e dalla val Manubiola fino quasi a Fornovo. «Compiano, la più piccola capitale del mondo, fino a prova contraria, ma capitale del primo territorio libero che si è formato a nord della linea Gotica» avrebbe poi scritto Piero Pellizzari, figlio di Achille (Poe, futuro rettore dell'Università di Genova). Del Territorio libero Poe fu amministratore, prima di essere commissario di guerra del Comando unico parmense al cui vertice militare era Giacomo Ferrari (Arta). La «repubblica» durò fino a metà luglio, quando i nazifascisti dilagarono attraverso i suoi varchi. Ma fu tutt'altro che la resa della Resistenza in Valtaro.
È a Compiano, all’ombra di un castello severo come in un assedio perenne, che Scagliola nacque 90 anni fa. La guerra lui l’ha combattuta, staffetta all’età in cui tutt’al più si fa «boom» puntando un'arma giocattolo e lo spargimento di sangue è del ginocchio sbucciato. «Fino alla caduta di Mussolini, ero stato un balilla - ricorda, ripensando agli sforzi fatti per non ridere nelle strampalate esercitazioni - un po' come tutti a quei tempi». Crebbe all'improvviso, dopo il proclama di Badoglio, e si fece partigiano quasi senza uscir di casa. «Ero contento di rendermi utile, e rifarei tutto, se tornassi indietro e la situazione fosse la stessa. Ma per me quanto facevo era soprattutto un gioco» dice ora. Avere nove anni, con la relativa scorta di incoscienza, forse lo aiutò a immaginarlo. Nonostante uno dei rischi maggiori lo abbia corso sforzandosi di giocare per davvero con la mascotte della X Mas di Valerio Borghese sbarcata a Compiano. «Stanco della sua aggressività, feci uno sgambetto a quel mio coetaneo. Mi inseguì con la baionetta: dovettero bloccarlo i suoi».
Il diploma del presidente Pertini
Un piccolo grande uomo, Ermanno di allora. A testimoniarlo, le onorificenze alle pareti del palazzo in via Duca degli Abruzzi, la casa partigiana di quei giorni, suo buen retiro dopo un'esistenza girovaga con l’amata moglie andalusa Montilla Ana Maria Marquez del Real de Llamas da tecnico della Saipem assunto da Mattei (vita avventurosa e coraggiosa pure in pace, durante la quale si fece anche amico di Maometto V re del Marocco). I titoli di cavaliere, ufficiale, commendatore compaiono sopra le firme di Leone e Cossiga con l’avvallo di Andreotti. Del 1984, il «Diploma d'onore al Combattente per la libertà, 1943-1945» autografato dall’allora ministro della Difesa Spadolini e da Pertini. Chissà se anche il presidente partigiano, ragionando su quelle date, avrà pensato all'infanzia rubata al combattente in erba. Scagliola non si lamenta di ciò che ha perduto, consapevole che ci fu ben di peggio. Ha visto feriti straziati, donne nerovestite sfiancarsi fino alla morte in rosari recitati sulle tombe di figli e nipoti trucidati, ha contato i caduti tra chi giocava a pallone con lui. «A troppi altri è stata rubata la vita» dice. Memorie che nemmeno nell’euforia del 25 aprile 1945, quando la Valtaro era stata liberata già da un paio di settimane, lo abbandonarono. Partiti per la città gli adulti chiamati alla sfilata, cessate le raffiche di gioia, si ritrovò ad ascoltare i silenzi di chi era finito sottoterra, spesso solo per essersi trovato al posto sbagliato al momento sbagliato. A Compiano e ancor di più a Cereseto, Strela e in tutte le altre frazioni di eccidi, saccheggi e incendi. Ancora oggi è così, quando - il tricolore sulle spalle - presenzia alle cerimonie, accompagnato da Vincenzo Genco, presidente dell’Associazione partigiani cristiani di Bedonia che lo segue come un figlio, o come quando gli riferiscono che Ferdinando Sandroni, vicepresidente nazionale dell’Anpc, ha citato il suo esempio, magari a ragazzi più grandi di quanto fosse lui, che sanno poco o nulla della Resistenza. «Quest’anno - mormora Scagliola - non sono così certo di andare: le gambe si sono fatte un po’ pigre». La mente però è salda, risoluto il ritorno agli anni ai quali forse non deve nemmeno tornare: un tempo così intenso non si fa passato per chi lo ha vissuto da protagonista.
Quel telefono mai intercettato
Il padre della staffetta, Pietro, era guardiafili e letturista della Compagnia imprese elettriche liguri: la sua casa sulla via principale dell’antico centro aveva il telefono, l’unico a Compiano oltre a quello del municipio e dell’esattore delle imposte. Ordini e informazioni del Libero territorio e delle missioni gestite dal colonnello Pietro Laviani (Lucidi) con il colonnello inglese Bayer e il maggiore Clifford passavano da lì, trasmessi in un codice (gli «isolatori bianchi» per i tedeschi, gli «isolatori in vetro» per i fascisti) non proprio criptato da Enigma. Sarebbe bastato alzare una cornetta lungo i cavi che collegavano le centrali idroelettriche, per ascoltare (e interpretare) i messaggi dei partigiani sui due versanti dell’Appennino, dalle spalle della linea Gotica fino a Chiavari e oltre verso Milano. «Ma pare che i fascisti non l’abbiano mai fatto - racconta Scagliola, maneggiando l’apparecchio che faceva da suoneria e ricetrasmettitore Morse -. Due squilli lunghi e uno breve significavano che la chiamata era per Compiano. E si rispondeva “Qui Piacenza”. Tutti i movimenti nemici erano segnalati. Così, il giorno in cui il telefono suonò alle 4 del mattino, mia zia rispose e avvertì il partigiano che dormiva da noi. Saputo della partenza da Berceto di numerosi camion tedeschi diretti a Borgotaro, lui diede l'allarme e ci si poté preparare lungo il Manubiola». Di giorno era la mamma a prendere le chiamate, ma capitava anche a Ermanno. «Scrivevo il messaggio e lo portavo a chi di dovere. Facevo la spola con il municipio, dove si trovavano Lucidi e i suoi, che per un certo periodo attendevano il segnale del lancio di 500 paracadutisti, per creare una testa di ponte alle spalle della linea Gotica, forse per facilitare anche uno sbarco nel Tigullio». Una storia poco nota, della quale ha scritto Massimo Salsi ne «Il mancato lancio del 185º battaglione paracadutisti della Divisione Nembo in Alta Val Taro».
A volte la missione di Ermanno era di rifornire di denaro i combattenti della zona, affinché pagassero i contadini per vitto e alloggio. «Un ragazzo passa più inosservato» commenta lui, capace di sfuggire come partigiano anche all'occhio della Volpe del deserto. «In piazza, da un'auto mai vista prima scese Rommel. Mi piaceva: mi avvicinai per salutarlo. “Buongiorno” rispose con un sorriso, a sottolineare che non avevo nulla da temere». Ma il più delle volte la staffetta era invisibile e silenziosa: taceva, quando sarebbe bastata una parola per mettere nei guai il paese intero. E parlava, quando si trattava di salvarlo.
Accadde il 19 agosto del 1944, dopo la diserzione di cinque bersaglieri della Divisione Italia schierata con Salò. Si erano parati poco prima proprio di fronte a Ermanno, che con il coetaneo Cirillo Pesci era andato a prendere il latte. «Dove sono i partigiani?» aveva chiesto il primo dei soldati. Oltre alla domanda, altro rischiava di partire a bruciapelo: alla staffetta era stato puntato il mitra contro il petto. Era la prassi, lungo quel sentiero. «Dapprima - scrive Scagliola in “Quandu s’erena fiö”, il libro corale di memorie su Compiano dedicato a Ilaria Alpi, originaria del paese dell'alta Valtaro - eravamo impauriti. Poi, con il passare dei giorni, subentrò una sorta di piacere per quegli incontri che ci esaltavano e ci facevano sentire importanti come e più dei “grandi”». Scostata con tutta calma la canna dell’arma, da quel momento era stata la staffetta a dare ordini agli aspiranti disertori. I mitra dei soldati erano finiti in spalla a lui e all'amico, le bombe a mano nelle loro tasche e tra i cespugli: i cinque dovevano presentarsi disarmati di là dal Taro. Precauzioni basilari. A quel punto, però, i rischi erano per Compiano occupata dai commilitoni dei disertori acquartierati nel castello.
L’allontanamento dei cinque fu visto come uno smacco da lavare con il sangue. Uomini, donne e bambini furono radunati in piazza, i primi divisi dagli altri. «La strage di Strela, con 17 civili inermi trucidati a sangue freddo - ricorda Scagliola - era di un mese prima: la mente di tutti correva lì. A Compiano non era toccata la stessa sorte solo grazie all’intercessione di un graduato degli 80 tedeschi fatti prigionieri nella battaglia del Manubiola, memore del trattamento pietoso ricevuto dalla popolazione. Rinchiusi per giorni nella casa di riposo Rossi e Sidoli, erano poi stati liberati. Io ero tra quelli che andavano a dare loro da mangiare. Tra loro c’erano anche dieci feriti, tre in condizioni pietose: uno dovevo nutrirlo con una siringa». La gente si era tolta il già scarso cibo di bocca, pur di sfamare anche ai nemici. Ma quel giorno d’agosto la riconoscenza sembrava esaurita. Presto si sarebbero contate altre decine di vittime, se Ermanno non avesse riferito alla maestra le parole proferite dal capo partigiano («Credo fosse Gino Cacchioli, Beretta») al momento della consegna dei cinque, sulla riva destra del Taro. «Minacciò che se avesse udito un colpo nessuno dei soldati sarebbe uscito vivo dalla valle - racconta Scagliola -. La maestra lo ripeté al maggiore con il monocolo e il frustino pronto a dare l'ordine al plotone d'esecuzione». Una raffica di rappresaglia ci fu, ma sparata alla cieca dall'alto delle mura verso gli alberi al di là del fiume. Alla ferocia si era sostituito l’istinto di sopravvivenza: sulla strada per la Liguria, dove avrebbero dovuto raggiungere il grosso del contingente, i soldati rimasti a Compiano rischiavano l’agguato a ogni curva. E per il maggiore la fine sarebbe potuta venire anche prima. «Il capitano Amoretti, che sarebbe poi passato con i partigiani - racconta l'ex staffetta - mi confidò di aver impugnato la pistola pronto a sparargli, se avesse dato il via all'eccidio».
La P38 dono di Picedi Benettini
Anche Ermanno aveva una pistola, che non usò mai, mentre gli adulti gli permettevano di provare le armi appena ricevute con i lanci. Si era tenuto anche alcune delle bombe a mano «sequestrate» ai disertori. «Le nascosi in un posto ignoto perfino ai miei». A dargli la rivoltella, di nascosto dai suoi, era stato Giuseppe Picedi Benettini, durante i giorni di Compiano piccola capitale. «Era gentile ed elegante, con la sua giacca di fine pelle nera, la pipa in bocca. Giocavamo a carte e parlavamo del futuro, mentre io aspettavo le chiamate e lui gli ordini dal Comando». Il dono di quella P38 fu come la consegna di un'onorificenza da parte di Penola. Un'altra venne da Franco Franchini (Franco). «Carissimo Ermanno, patriota di Compiano... malgrado la tua età, hai dato un bel contributo alla disgregazione delle forze fasciste - gli scrisse Franchini in una lettera con le insegne di comandante partigiano, un triangolo rosso con tre stelle, all'indomani del 19 agosto 1944 -. Dietro la fuga dei tuoi bersaglieri, altre centinaia sono venuti nelle formazioni partigiane e colle armi che hanno portato hanno dato consistenza alle nostre file. Bravo Ermanno! Col tuo gesto hai dato il via alla disgregazione delle formazioni fasciste in val di Taro». Per lo stesso episodio, nel giugno del '45 ricevette un attestato da Poe, che a voce lo aveva già elogiato durante la guerra in una riunione partigiana a Porcigatone. Sottolineata la sua sagacia e il suo senno, il commissario di guerra al «fanciullo Ermanno» augurava che il suo avvenire di uomo fosse «degno di questa sua pura e forte fanciullezza». Missione compiuta, potrebbe rispondere la staffetta.
Roberto Longoni
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