TEATRO REGIO
Pantaloncini corti e maglietta, il «baritonissimo» Luca Salsi arriva all’appuntamento nella distesa di una pasticceria cittadina con il figlio Ettore. Cantando nella sua Parma, si gode il privilegio di una vita casalinga, in contrasto con i continui viaggi imposti dal mestiere di cantante. Godersi la casa e i figli, tagliare il prato, incontrare un amico, donano alla permanenza a Parma un sapore speciale per una star della lirica come lui, sempre in giro per il mondo. Davanti ad una cedrata, iniziamo la chiacchierata che intreccia il Salsi cantante, che questa sera al Teatro Regio vestirà i panni di Carlo Gérard nell’ Andrea Chénier di Giordano, opera con la quale inaugurò la Stagione della Scala nel 2017, al Luca uomo che poco più di un mese fa ha tagliato il traguardo dei cinquant’anni.
Parafrasando Gérard, son cinquant’anni o vecchio... Come ha festeggiato?
«Nel modo più bello, cantando alla Scala e dopo la recita di Tosca cenando al ristorante con amici e famiglia».
Il regalo più bello ricevuto?
«Un oggetto che non si può comprare e che desideravo da tempo: il medaglione delle maschere della Scala che mi ha regalato il sovrintendente Fortunato Ortombina».
La cosa più importante che ha fatto in questi cinquant’anni?
«I miei figli Ettore e Carlo. Professionalmente le inaugurazioni scaligere, in particolare la Tosca di Puccini che mi ha fatto svoltare in carriera. Poi tutte le volte che ho cantato con il maestro Muti».
Come ha speso i primi guadagni?
«Da ragazzo feci per tre estati la campagna del pomodoro e acquistai una piccola automobile. Se parliamo di canto, quando vinsi 25 milioni di lire al concorso Viotti, che non assegnava il primo premio da 25 anni, comprai un’auto più grande».
Per cosa ha «lottato» di più nella vita?
«Per il canto senza dubbio. Nei momenti difficilissimi, e ci sono stati, la svolta è sempre stata quella di studiare di più senza dare la colpa a tutto e tutti tranne che a me stesso. Se avevo cinque mesi liberi andavo a studiare a Empoli dal mio maestro e questo impegno totale ha pagato».
Chénier, per qualcuno una meraviglia per altri «musicaccia»...
«E’ un’opera stupenda, una specie di Trovatore verdiano dove non si scarta quasi nulla, una sequenza di arie e duetti meravigliosi. Ho la fortuna di aprire l’opera con un’aria bellissima,”Son sessant’anni vecchio”, poi arriva Chénier con “Improvviso” che è magnifico, il duetto con Maddalena, il concertato del secondo atto e ancora “Nemico della patria” e “La mamma morta” del soprano. Il problema è che il Verismo è un po’ snobbato perché al melomane medio piace il Belcanto. Chénier è bello perché c’è verità. Il fatto è che per cantarla ci vogliono tre grandi voci».
Il Gérard di riferimento è Cappuccilli?
«Se la giocano Bastianini, Cappuccilli e Protti. Farei un mix. Il timbro brunito di Bastianini vellutato ma cattivo, perfetto per il ruolo, con l’acuto dell’aria più bello mai fatto. Di Cappuccilli la solidità, la tecnica, la passione e il colore della voce. E Protti perché mi piace come cantava, la sua tecnica, la sua scuola che è la stessa del mio maestro Carlo Meliciani e un po’ anche la mia».
Il pubblico aspetta il baritono al varco in «Nemico della patria»...
«Quest’aria la vinci sul finale. Bisogna fare bene l’acuto e la nota finale, un re naturale, va fatta ampia. Bisogna avere ampie le note del baritono, re e mi bemolle».
Gérard, il cattivo, le piace interpretarlo?
«Molto. E’ un cattivo buono che lotta per una causa giusta e alla fine si redime. Nel terzo atto c’è in lui un po’ di Scarpia e questo mi piace. Musicalmente è scritto benissimo e il baritono nello Chénier, saltando Puccini, è quanto di più vicino a Verdi di tutta la scrittura verista».
Ilaria Notari
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