Tribunale
Era il 28 novembre 2017. I datari dei quadranti dei cinque orologi protagonisti di questa storia di certo avranno concordato sul giorno, sui minuti forse no: spesso, più i cronometri da polso sono preziosi e meno indicano l’ora esatta. Noblesse oblige. Be’, quella collezione di fuoriserie dell’orologeria preziosa lo era, eccome. In tutto, valeva quasi un milione e mezzo di euro. Questo il bottino di una «stangata» in piena regola destinata a restare impunita: quel lontano 28 novembre, un Roger Dubuis Excalibur in oro rosa, un Roger Dubuis Excalibur in oro bianco, un Richard Mille Rm002, un Audemars Piguet Wrist watch Royal Oak in oro rosa e un Piaget in oro bianco e brillanti fuggirono ben più veloci del tempo, la cui fuga lussuosamente misurano. Bastò un attimo, e chi li possedeva li vide sparire su un’auto diretta fuori città. In mano gli rimase un mucchio di carta straccia. E carta straccia si sarebbe rivelata la conseguente querela per truffa. Irrituale perché sporta non dal proprietario degli orologi, bensì dal figlio. Per la legge Cartabia, è scaduto il tempo per rimediare con un'altra denuncia: necessaria, perché la truffa non è procedibile d’ufficio. Ma le vittime non fecero nulla, e così - mancando i presupposti formali - il giudice Nicola Giusteschi Conti ha chiuso il processo, nonostante il pm Marirosa Parlangeli abbia provato a chiedere tre condanne, sostenendo che pure il figlio era comunque stato truffato.
La vicenda
Nel 2017, il padre di quest'ultimo, imprenditore di una provincia vicina, pensò di vendere gli orologi nei quali aveva investito parte dei risparmi, per aiutare il figlio 25enne ad aprire un'attività in Sicilia. Ne parlò con il proprio direttore dei lavori, che sparse la voce. Emerse che alcuni mediatori immobiliari, conoscenti di quest'ultimo, si erano ritrovati con un giovane sedicente uomo d'affari svizzero (lo chiameremo Peter), per trattare l'acquisto di un albergo in Toscana. Sul display del suo smartphone compariva proprio la foto di un prezioso orologio. L'uomo d'affari - ben introdotto e ancor meglio vestito - ostentava l'amore per il lusso. In particolare, per gli orologi più esclusivi.
Venne così organizzato un incontro tra lui e gli aspiranti venditori a Fiorenzuola. Parteciparono anche il direttore dei lavori e uno dei suoi amici mediatori. Esaminate le foto dei cinque orologi, Peter si disse interessato. Furono fissati il prezzo (quasi un milione e mezzo, appunto), da saldare con un bonifico, e la data. L'affare sarebbe stato realizzato nel giro di poche settimane a Parma, luogo strategico per entrambe le parti. Ma Peter bruciò le tappe: chiamò per annunciare all'imprenditore l'intenzione di anticipare di un paio di giorni, nella hall di un albergo. «Io non potrò esserci, ma verranno due miei emissari, con il bonifico» disse.
Banconote «da Monopoli»
Padre e figlio non ebbero nulla da eccepire, magari immaginando di poter risparmiare sulle percentuali per i mediatori. Tolti dalle scatole e infilati in uno zainetto i due Dubuis, il Richard Mille, l'Audemars Piguet e il Piaget, andarono all'appuntamento. Nella hall dell'hotel si presentò un tizio con l'aspetto che ricordava quello di un rabbino, con una bambina per mano. Era uno degli emissari. «Ma non stiamo qui, tra tutti questi sguardi indiscreti» fece lui, indicando l'esterno. Il figlio dell'imprenditore lo seguì sulla Renault Megane parcheggiata davanti all'ingresso, con un autista al volante. Prese posto sul sedile anteriore destro e passò lo zainetto a chi aveva appena conosciuto, che nel frattempo si era accomodato dietro. Quest'ultimo, verificata l'autenticità degli orologi, gettò un borsone in grembo al giovane. «Ecco i tuoi soldi» esclamò, e con l'aiuto del complice al volante in malo modo spinse l'altro giù dall'auto. La Megane era già scomparsa nel traffico, quando lo sconcertato figlio dell'imprenditore si rese conto che il borsone era zeppo di banconote con la scritta «facsimile». Buone per il Monopoli. Chiamare Peter servì solo a registrare il suo presunto stupore. Poi, il telefono si fece muto. Non restò che denunciare (ma in modo non corretto, purtroppo).
Attraverso i fascicoli fotografici, padre e figlio riconobbero un allora 40enne macedone (colui che era entrato nella hall) residente in Lombardia, un 33enne a sua volta di origini slave residente in Veneto (il guidatore della Megane). «Peter», 24enne lombardo, venne riconosciuto anche dai mediatori. Manco a dirlo, tutti e tre hanno precedenti per truffa. Questa volta, se la vicenda è andata come secondo denuncia, la giustizia l'hanno gabbata senza nemmeno barare più di tanto.
Roberto Longoni
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