Intervista
Michele Serra, il suo monologo si intitola «La fine del mondo»: cosa racconterà al pubblico parmigiano?
«Che il mondo non ha nessuna intenzione di finire. Male che vada finisce l’Occidente, e non è la stessa cosa».
Cosa le ha lasciato l’esperienza di «Una piazza per l’Europa»?
«Una stanchezza indescrivibile, e un’esperienza politica e umana che non avrei mai immaginato di poter vivere».
È stata un’iniziativa utile, per fare capire quanto bisogno di Europa abbiamo? Tornasse indietro, la rifarebbe?
«La rifarei solo sotto ipnosi. Scherzi a parte, credo abbia raggiunto il suo scopo: mettere in luce l’esistenza di uno spirito di cittadinanza europea molto forte, di un bisogno di Europa non corrisposto. Europa e democrazia, per chi era in piazza a Roma, sono concetti quasi coincidenti. Non per caso chi odia la democrazia odia l’Europa».
Le è giunta notizia che a Parma il rettore è stato duramente contestato dal centrodestra per avere aderito alla manifestazione e organizzato un pullman per gli studenti?
«Non lo sapevo ma non mi sorprende. La destra è nazionalista e l’europeismo, che è sovranazionale per definizione, non lo sopporta. Esiste, sulla carta, anche una destra liberale ed europeista, ma è ridotta ai minimi termini».
Si definisce «intellettuale-contadino», è giornalista, scrittore, umorista, autore televisivo e teatrale. Qual è il lavoro che le riesce meglio?
«Come trattorista non temo rivali. Come scrittore posso migliorare».
Tecnicamente è in pensione, ma l’impressione è che lavori più di prima: tra lo storico appuntamento quotidiano con «L’Amaca» su «Repubblica», la newsletter settimanale «Ok Boomer» sul «Post» e le apparizioni televisive, quanto a produttività non scherza.
«Per me scrivere e respirare sono quasi la stessa cosa. Ho sempre paura di esagerare, ma poi cado in tentazione. Spero che quantità e qualità non siano in contrasto, altrimenti sono rovinato».
Facciamo qualche passo indietro, per ripercorrere mezzo secolo di (brillantissima) carriera. Ha cominciato all’«Unità», grazie alla militanza nel Pci.
«La politica in quegli anni era quasi tutto, era il motore di molte vite, anche professionali. Mi piaceva scrivere e mi piaceva la sinistra, ho avuto la fortuna di poter abbinare le due cose».
A proposito di Pci: è vero che sua madre – donna molto colta e convinta elettrice di destra – un giorno avvicinò Montanelli dopo una conferenza per lamentarsi di avere un figlio comunista?
«Verissimo. Me lo raccontò Montanelli. Un poco ne ridemmo, un poco rendemmo omaggio alla formidabile tempra di mia madre. Le devo molto, era spiritosa in tutto, tranne che quando si parlava di politica».
A vent’anni dimafonista, un anno dopo assunto come giornalista, a 22 anni professionista. La gavetta è ancora il modo migliore per diventare un bravo giornalista?
«Nel mio caso lo fu. Più gavetta di così, non era possibile. Oggi non saprei dire, ai miei tempi, almeno, era una gavetta pagata decentemente. Oggi per fare il giornalista bisogna avere una determinazione fortissima, perfino più forte della depressione economica e dei salari miserabili».
Primo incarico, redattore sportivo. Primo servizio da inviato, le Olimpiadi di Los Angeles nel 1984. Poi, l’estate successiva, un viaggio in Panda da Ventimiglia a Trieste, per raccontare l’Italia in vacanza. Una serie di reportage diventata poi un libro, «Tutti al mare».
«Mi sentivo sempre meno giornalista e sempre più scrittore. Ho cercato di “usare” il giornalismo, in senso buono, per arrivare alla scrittura in senso pieno. Senza limiti di spazio e di genere».
Ha avuto un maestro a cui sente di dovere riconoscenza?
«Tanti. Per restare alla scrittura comica Fortebraccio, Stefano Benni, Mark Twain, Kurt Vonnegut, e chissà quanti altri che non ricordo. Allora si leggeva un’enormità di libri e di fumetti, si andava al cinema un paio di volte alla settimana. Eravamo delle spugne».
L’esordio da umorista grazie a Staino a «Tango», l’inserto dell’«Unità». E gli indimenticabili pezzi apocrifi (poi raccolti nel libro «44 falsi», insieme a quelli usciti su «Cuore»).
«Con Staino ho un debito enorme. Ero un autore di satira e non lo sapevo, per fortuna lo sapeva lui».
Nel ’92 sull’«Unità» debutta il suo corsivo quotidiano «Che tempo che fa», poi «L’Amaca», dal 2001 su «Repubblica». Ma come si fa ad avere un’idea buona tutti i santi giorni?
«Non credo proprio di avere un’idea buona tutti i giorni. Diciamo che riesco a mettere in bella copia, tutti i giorni, qualche pensierone e molti pensierini. La scrittura quotidiana insegna a non alzare troppo la cresta, a non impancarsi».
Scrive di getto appena decide l’argomento?
«Quasi sempre. Ma a volte fatico. Si scrive anche per mestiere, perché ti pagano per farlo. Altrimenti starei molto più tempo sul trattore».
Una “bella penna” come la sua è un dono di natura o frutto di allenamento e esperienza?
«Un dono di famiglia, quella di mia madre era una famiglia di letterati. Sono cresciuto tra i libri e con il culto della parola giusta. Poi, certo, il lavoro e l’esperienza fanno la differenza. Scrivere è faticoso. Sempre. E se non fatichi, scrivi male».
L’Intelligenza artificiale riuscirà mai a emulare il suo stile?
«Dice Jovanotti che l’IA usa quello che già è stato scritto. L’artista, al contrario, cerca di dire quello che non è mai stato scritto. Sono d’accordo con lui».
Qual è il giornalista che legge più volentieri?
«Leggo Augias come si legge Seneca. Ammiro la sobria autorevolezza degli editoriali di Paolo Pagliaro a “Otto e mezzo”. Poi dico due nomi di getto, Giuliano Ferrara e Adriano Sofri. Con il primo sono quasi sempre in disaccordo, con il secondo sempre d’accordo, quella che fa la differenza è la qualità della scrittura. Un articolo di destra scritto bene è meglio di un articolo di sinistra scritto male. In questo senso è un vero peccato che i giornali di destra siano scritti così male».
In 17 anni di “Posta” sul «Venerdì» (fino al commiato, lo scorso febbraio), ha calcolato di aver risposto a 3.000 lettere e privatamente a oltre 10.000. Anche qui, una bella resistenza.
«Ho lavorato molto. Anzi moltissimo. Mi riconosco notevoli doti da sgobbone».
Tra i tanti libri che ha scritto, qual è quello di cui è più soddisfatto e quello di maggior successo?
«I miei preferiti sono “Cerimonie” e “Le cose che bruciano”. “Gli sdraiati” ha avuto un successo travolgente ed è stato tradotto in tutta Europa, non riesco più a giudicarlo, è come il figlio che diventa una rock-star, è già tanto se si ricorda di te».
E tra i programmi e gli spettacoli di cui è stato autore?
«Ho un ricordo molto bello di “C’era un ragazzo”, con Gianni Morandi che è una persona speciale, oltre che un grande artista. E considero un privilegio la collaborazione ormai trentennale con Fabio Fazio».
Cosa pensa del nuovo Papa?
«Aspetto di capire come la pensa. Non sulle questioni confessionali, che non mi riguardano, ma su quelle politiche, che riguardano tutti».
Un aggettivo per Trump.
«Indecente».
Giorgia Meloni.
«Abile».
Matteo Salvini.
«Violento».
Elly Schlein.
«Sottovalutata».
Un’ultima domanda, che non posso non fare, visto che ci accomunano l’amicizia e la stima per un gigante del giornalismo (e non solo): quanto le manca Gianni Mura?
«Quanto un fratello».
Claudio Rinaldi
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