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La storia

Il «clan» dei Lusardi alla ricerca delle radici a Bedonia

Il «clan» dei Lusardi alla ricerca delle radici a Bedonia

18 Maggio 2025, 03:01

Bedonia Il bosco si è ripreso tutto fuorché la memoria. «Il castello era là» Claudia indica il folto del verde verso la valle del Gelana, tre-quattrocento metri in linea d'aria a lato della chiesa di San Martino Vescovo. Inutile andarci. Meglio sognarle, le mura merlate scomparse da secoli. Del rifugio fortificato non sono rimaste che poche pietre ricoperte dal muschio e dalle fronde dei castagni, ammucchiate come se si fosse voluto disossare un pezzetto di montagna. Tanto sparuti, quei resti, che perfino i fantasmi li sdegnano: non se ne segnalano. Almeno così è da quando si è persa l'abitudine dei firossi e delle veglie visionarie. Sfatata a furia di scavi anche la leggenda del tesoro sepolto dall'ultimo castellano, costretto alla fuga per un omicidio di troppo. «Tanti hanno setacciato l'area con il metal detector - ricorda Carla -. Senza trovare nulla». Eppure, quel rudere basta, per fornire solide fondamenta a una storia dagli infiniti rivoli. Quella dei Lusardi, che se si fosse in Scozia sarebbero un clan, per tanti che furono e sono e per la potenza dimostrata ai tempi in cui meglio menavi e più valevi. Quando anche l'arciprete di Bedonia, tale Sacchetto Lusardi, nello stemma si faceva ritrarre a cavallo con una lancia. Altro che aspersorio, altro che guance da porgere.

Si sono dati appuntamento a Bedonia, poco sotto la loro Montarsiccio, i Lusardi, e alcuni dei rivoli della storia sono scorsi all'indietro fino alla casa madre. Tutti attesi da un cartellino con nome e località di residenza alla porta della sala convegni del seminario di San Marco. Sottinteso il cognome, nota comune ai 45 che hanno risposto all'invito, a loro volta affiancati da 38 accompagnatori non Lusardi, ma spesso dalle medesime origini. «Un inizio incoraggiante - sottolinea Marco -. Molti purtroppo hanno dovuto rinunciare per impegni improrogabili, ma mi hanno fatto sapere che non perderebbero altre occasioni. In futuro vedremo anche di coinvolgere sempre più anche i Lusardi all'estero». Da buon ingegnere informatico, Marco ha costruito parte della rete che ha portato ad affollare la sala, «attraverso Facebook, Linkedin, il tam tam tra i parenti. Anche l'articolo dei giorni scorsi sulla Gazzetta ha significato parecchie adesioni». Lui ha dato il buon esempio, con la partecipazione transgenerazionale della famiglia. Piacentino residente a Milano, Marco è presente con la moglie, il fratello Rinaldo, titolare di un centro fitness a Piacenza, e il figlio Massimo, consulente aziendale, venuto da Basilea con il nipotino Matteo. È lui, nove anni, il più giovane dei Lusardi a raccolta, diviso tra la curiosità per l'evento e l'altrove della musica in cuffia.

Esigenza condivisa
«L'idea di questa riunione - spiega Marco - mi è venuta leggendo il libro di Corrado Truffelli “Storia dei Lusardi e dei Granelli, delle valli del Taro e del Ceno” (edito dal Centro studi Cardinale Agostino Casaroli, ndr)». Un mese fa, Montarsiccio ha smesso di essere un nome mitico pronunciato dalla mamma dell'ingegnere. «Ci sono finalmente andato. Ed è stata una grande emozione il contatto con le radici». Ora sono radici che si intrecciano. Storia da condividere. Anche se non ci si chiama Lusardi. «Vedere una sala convegni così affollata da una famiglia riempie di gioia» esclama monsignor Lino Ferrari, dando a tutti il benvenuto nel seminario del quale è rettore. «Dopo che da qui sono usciti oltre seicento sacerdoti - aggiunge - dal 1981 non ci sono più seminaristi, ma i nostri rapporti con il territorio sono sempre stretti e continuiamo la semina di cose buone, dedicandoci alla formazione spirituale e culturale. A sua volta, come Marco, monsignor Ferrari ringrazia Truffelli.

Spetta all'ex presidente della Provincia, presidente del Centro studi Agostino Casaroli, a sua volta originario dell'alta val Taro, guidare i Lusardi nel viaggio attraverso la loro storia. Una storia che guarda dall'alto del Pelpi che sovrasta Bedonia. «Si chiamava Perpeno - spiega Truffelli - e le prime tracce dei Lusardi sono legate a questo monte, mille anni fa. Quindi sono segnalati a Montarsiccio, Pietra Piana, Caneso e Carniglia». Nella prima località, il baluardo-rifugio, nella seconda il castello incombente sulla strettoia del Taro sopra Piane di Carniglia (alto sulla sponda del fiume opposta a quella che ospita la sorgente del «tubetto» ben nota a ciclisti e non solo). A sua volta in rovina, Pietra Piana doveva essere un formidabile chiavistello sulla strada tra la costa e la pianura. Un'occhiata alla cartina, e il pregiudizio del territorio isolato è presto smentito. Aspro sì, ma tutt'altro che fuori dal mondo. «In realtà - sottolinea Truffelli - questa è una zona strategica tra Parma, La Spezia, Genova e Piacenza». Province che un tempo significavano domini diversi e rivali. Non solo. «I Lusardi, gruppo più potente dell'alta val Taro, da loro controllata a macchia di leopardo, erano schierati a fianco di Ubertino Landi, a sua volta braccio destro dell'imperatore Federico II». Lo Stupor mundi riponeva tanta fiducia nel Landi, dominus di questo territorio nella seconda metà del Duecento, da nominarlo podestà di Siena e di Firenze. Ghibellini della montagna, i Lusardi erano anche vicini ai Malaspina e ai Pallavicino (mentre con i Fieschi se le davano di santa ragione). «Già nel Duecento - prosegue lo storico - li ritroviamo in Liguria. All'inizio del Quattrocento partecipano alla costituzione dell'albergo dei Franchi, con le case in vicolo delle Mele: Battista Luxardo ebbe un ruolo di primissimo piano nella lega antifrancese». Un piccolo esercito, Battista se lo creò in casa: ebbe sedici figli. Uno fu anche governatore della Corsica.

Viaggiatori e migranti
Lusardi viaggiatori, all'Escorial del Cinquecento. «Nella sala dei bottoni di Filippo II e dell'impero sul quale non calava mai il sole» commenterà in seguito Nicolò, 23 anni, da Brugnato, laureando in Storia alla Statale di Milano. E poi orsanti, merciai, conduttori di scimmie e cammelli in Ucraina e Turchia. O anche oculisti della Duchessa, come Cristoforo, con esperienze in Belgio, Francia e Spagna. O amministratori. Come Francesco, «figlio di Modesto notaio di Bardi - spiega Truffelli - insigne criminalista, governatore di Guastalla a fine Settecento e poi alto magistrato per Maria Luigia. Il primo registrato in partenza per il Brasile, nel 1847 fu tale Stefano il “Lombardo”. L'anno dopo, Andrea sbarcò in Argentina: tra il 1882 e il 1956, sarebbero stati 130 i Lusardi nella sua scia. Mentre il cognome nelle sue varianti (da Lusardi a Luxardo) ricorre 717 volte nei registri di Ellis Island.

Tra i loro discendenti, Mauro e Luigi, titolari di cinque ristoranti, tra i quali il Lusardi's di Manhattan, amato da politici e attori. Una punta di diamante non solo della cucina, ma dello stile italiano oltreoceano. In sala, in prima fila, la sorella Maria Rosa. «A New York sono rimasta dal 1962 al 1967 - racconta -. Poi ho scelto di aprire un negozio a Borgotaro». Fiera di chiamarsi Lusardi, è accompagnata dal figlio che preferisce tenere un basso profilo. «Ovviamente, il mio cognome è diverso» sorride lui. È quello «di una delle famiglie più importanti non solo del nostro territorio. Sono qui con molto piacere» dice il sindaco Gianpaolo Serpagli, intervenendo al pranzo in seminario. «Non potevo sperare in un battesimo migliore di questo» dichiara Matteo Daffadà, neo presidente della Consulta degli emiliani-romagnoli nel mondo. La montagna unisce le famiglie più che dividerle: un attimo dopo, Daffadà saluta il cugino Giuseppe.

L'aquila imperiale
Altri, finiti oltre il crinale, qui hanno ancora la casa. Come Maria, diciassettenne di Rapallo, che con i suoi ogni tanto riapre le imposte alla dimora dei nonni a Santa Maria del Taro. «Ricordo i racconti del nonno, che si salvò dalle mitragliate di Pippo nascondendosi dietro una mucca». Maria sogna di inventare un'auto meccatronica. «La chiamerò Lusardi» sottolinea. Il cugino Nicolò (il 23enne di Brugnato) vorrebbe insegnare e scrivere. Sembra portato, per come è bravo ad ascoltare. «Bello essere qui, a fare i conti con le nostre origini - dice -. Un sogno sarebbe anche trovare il modo di ridare vita a questi monti». Per Marika di Rustigazzo (vicino a Velleia), vicedirettore di Confapi Piacenza, invece, il cognome ha rappresentato un grattacapo. «Persi presto il nonno - racconta - e così ho dovuto ricostruire la memoria della famiglia e dei tre ceppi diversi di Lusardi della mia zona». Ha scavato negli archivi del Comune e della parrocchia e accedere agli estimi farnesiani all'Archivio di Stato. «Una storia appassionante, da condividere».

Ma non seguirà il padre Luigi e l'amico Gianluigi di Morfasso nel «pellegrinaggio» a ritroso fino a Montarsiccio. Qui si aprono le porte della chiesa, dove nel 1927 venne riesumato dal pavimento lo scheletro di un uomo con lo stiletto al fianco. Ubertino venuto a morire nella tana dei fidi alleati? Claudia e Carla, la più giovane dei Lusardi di quassù (ma residente a Tasola, di là dal monte) non si sbilanciano. Chi invece si è sbilanciato, chiudendo con la città, è Carlo. Ex responsabile della Simonazzi di Fontevivo, nel 2001 è tornato in pensione. «La pace che c'è qui non ha prezzo» dice, aprendo il portone di quello che un tempo era il borgo fortificato degli antenati a Montarsiccio. Sull'architrave di pietra, dei simboli in rilievo consumati dal tempo. Un altro risalta sulla porta di una casa ristrutturata. È l'aquila imperiale dello stemma di famiglia. «Quando lo descrissi a un principe siciliano - racconta Aurora, avvocato civilista di Parma - lui rispose con un accenno di inchino». Meglio tenerseli buoni, i Lusardi. Anche Federico II la pensava così.

Roberto Longoni

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