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INTERVISTA

Marco Faelli: «Un onore dirigere il coro del festival pucciniano»

Marco Faelli: «Un onore dirigere il coro del festival pucciniano»

di Ilaria Notari

07 Giugno 2025, 03:01

Niente vacanze estive per il maestro Marco Faelli chiamato a guidare il Coro del Festival Puccini di Torre del Lago, che si aprirà con «Tosca» nel Gran Teatro all’aperto sul lago di Massaciuccoli.

Dal 18 luglio, cinque i titoli, «Tosca», «La Bohème», «Turandot», «Madama Butterfly» e «Manon Lescaut» e un Gala con Anna Netrebko, per diciassette serate che avranno per protagonisti gli interpreti più apprezzati dei nostri giorni. Direttore di coro e d’orchestra parmigiano, Faelli ha lavorato per anni nei più importanti teatri tra cui La Scala di Milano, L’Arena di Verona e il San Carlo di Napoli.

Maestro Faelli è felice di questo incarico?
«E’ per me un onore. Dopo aver lasciato il San Carlo nel 2019 mi ero fermato ritenendomi soddisfatto del percorso svolto, ma di fronte alla chiamata del direttore artistico Angelo Taddeo, non potevo dire di no. Torre del Lago è un luogo magico».

Troverà il baritono Luca Salsi in Tosca, Michele Pertusi in Turandot e il maestro Michelangelo Mazza che dirigerà il concerto di Netrebko. Sarà un Puccini in salsa parmigiana...
«E’ vero, e del resto chi ha diretto le prime mondiali di Turandot, Fanciulla e Bohème? Toscanini! Che però non gli perdonava di aver scritto Il tabarro, per lui musicaccia».

Che segno ha lasciato Puccini nella storia della musica?
«E’ uno spartiacque tra Otto e Novecento. Con Puccini c’è un salto nel ‘900 anche nell’estetica, nella scrittura musicale, nella scelta dei temi che spesso sono piccolo-borghesi, intimi non epici come spesso troviamo in Verdi, o di grande drammaticità, o storici e leggendari come ne I lombardi, Otello, I vespri. In Puccini i soggetti sono spesso basati su vicende personali di persone insignificanti, Tosca a parte. E’ tutta una poetica diversa. L’uso dello strumentale poi, in Puccini è molto avanzato. Sto riguardando Manon e la scrittura è molto complessa anche da un punto di vista contrappuntistico, ma quello che risalta è un uso dell’armonia straordinariamente moderno e della dissonanza molto libero. Siamo di fronte ad un uso impressionista. Dal punto di vista strumentale sono delle opere sinfoniche, nonostante ci sia questa cantabilità straordinaria, tipicamente pucciniana. A volte mi chiedo come sia riuscito a scrivere delle linee melodiche simili. E non è solo quello, perché c’è anche una struttura molto complessa in orchestra. Pensiamo a Turandot, ha delle strutture e microstrutture molto complesse e dettagliate, moderne, con vere e proprie sovrapposizioni tonali, roba da Stravinskij!».

Come tratta il coro?
«Sono pagine ben scritte ma difficili. Il coro è la folla e spesso sono scene in movimento, con interventi spezzati, difficili da memorizzare. Magari entrano i baritoni poi i tenori, poi canta un comprimario, poi interviene il solista e risponde il coro. Serve molta attenzione, nel rendere con ordine questo caos organizzato, come nel secondo atto di Bohème, perché cadere nel pasticcio è un attimo. Puccini scrive alcune opere corali e altre in cui gli interventi sono belli ma limitati come in Butterfly. Il “Coro a bocca chiusa”, per esempio, è stupendo e ricordo che una volta a Genova con il maestro Daniel Oren, abbiamo girato tutto il teatro per trovare il punto in cui piazzare il coro per ottenere l’effetto giusto. Ma le tre opere dove il coro è veramente importante sono Fanciulla del West, Manon Lescaut e Turandot che richiede un grande organico, precisione ed è anche pesante vocalmente perché spinge verso l’acuto e il coro è sempre presente. Lo stesso Manon, che è anche lunga. Il vantaggio è che il Coro del Festival ha Puccini nel sangue e conosce perfettamente questo repertorio».

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