OMICIDIO AL CAS
Un’ombra anche il volto di Rabbi Hosen. Mai uscito dalla cella in cui è rinchiuso dopo quella sera in cui ha massacrato Rabby Ahmed, il suo compagno di stanza al Centro di accoglienza di via Faelli, bengalese come lui. Non si è mai visto in tribunale dopo il 30 ottobre 2023, nemmeno quando ha preso il via al processo. Anche ieri non c’era. Ma la Corte d’assise, presieduta da Maurizio Boselli (giudice a latere Francesca Merli), ha deciso che non si dovrà indagare ancora nei meandri della sua mente. No a una nuova perizia psichiatrica, ritenuta «superflua», come aveva chiesto in primis il pm Domenico Galli durante la prima udienza del processo, sostenuto anche dal difensore di Hosen, Matteo Bolsi, mentre l'avvocato di parte civile Serena Dimichele, che rappresenta il padre di Rabby, si era fermamente opposta. Nessun nuovo accertamento, che poi sarebbe stato il terzo, dopo un primo «tentativo» disposto dal gip ma finito nel nulla, perché Hosen aveva accettato solo un primo incontro con il perito rifiutando poi ogni contatto successivo. E una seconda valutazione, a cui aveva dato il via libera il gup, affidata alla psichiatra parmigiana Giuseppina Paulillo, che si è conclusa nei mesi scorsi con una «verità»: Hosen, 25 anni, è totalmente capace di intendere e di volere. I giudici hanno rigettato anche un'integrazione della perizia psichiatrica, come aveva suggerito la difesa in subordine, con test specifici su Hosen.
Hosen che temeva di essere avvelenato. Aveva paura che il compagno di stanza lo uccidesse. Che dormiva nella vasca da bagno o girava nell'appartamento del Centro d'accoglienza (Cas) impugnando dei coltelli. Tutto vero in quei dieci giorni che hanno preceduto un omicidio brutale e insensato: Rabby colpito in testa con un mattarello e poi sgozzato fin quasi a decapitarlo. Ma ieri, in oltre due ore di confronto con la difesa, a tratti anche teso, Paulillo ha ribadito la sua convinzione. Il ragazzo ha un «disturbo di personalità non classificato», ma non tale da portare a un vizio di mente: questa la conclusione ribadita in aula. «Non ci sono degli elementi psicopatologici né dipendenti dall'assunzione di sostanze stupefacenti che gli hanno alterato la capacità di intendere e volere», ha risposto la psichiatra dopo una serie di domande incalzanti della difesa.
Bolsi ha insistito a lungo sui «deliri da veneficio» che avrebbero caratterizzato la vita di Hosen nei dieci giorni precedenti l'omicidio, oltre che sui due accessi in Pronto soccorso. «Sia in Pronto soccorso che successivamente non c'è stato alcun delirio che abbia avuto un'ideazione strutturata - sottolinea la psichiatra -. La struttura delirante, per essere tale, deve essere presente per un mese tutti i giorni».
Durante i colloqui per lo svolgimento della perizia Hosen ha chiarito, senza alcun rimorso: «”Rabby mi dava fastidio da tre anni e l'ho ucciso”», spiega Paulillo. Nessun pentimento. E nessun particolare turbamento avrebbe mostrato alla psichiatra. I motivi di tanto risentimento? Una differente visione politica rispetto a Rabby, forse l'omosessualità di Hosen, ma ciò che l'avrebbe maggiormente infastidito era il fatto che il compagno di stanza avesse contattato i suoi familiari, forse rivelando anche il fatto che nell'ultimo mese non stava lavorando, fumava spinelli e si era sempre più chiuso in se stesso.
Un omicidio non solo volontario ma anche premeditato e aggravato dai futili motivi, secondo l'avvocato Dimichele, che rappresenta il padre di Rabby. Così convinta la difesa di parte civile che ha anche chiesto al pm di riformulare l'imputazione con quelle aggravanti, ma l'accusa ha spiegato che «non ci sono i presupposti». Eppure, Dimichele aveva posto l'accento sul fatto che, dopo l'omicidio. Hosen avesse portato con sé abiti puliti, si fosse cambiato e soprattutto avesse scritto sei pagine in bengalese, poi consegnate ai carabinieri, in cui confessava il delitto e diceva di averlo fatto perché temeva di essere ucciso. «Ci sono un'organizzazione psichica e un comportamento finalizzato all'atto reato. C'è sempre una linea di continuità nelle sue azioni», sottolinea la psichiatra. Che, però, rispondendo a una domanda della difesa, ha ammesso che 45 giorni per svolgere una perizia sono «pochi». «Se avessimo avuto più tempo avremmo potuto fare dei test, anche se il suo livello culturale è molto scarso - spiega -. Tuttavia certi approfondimenti non si possono fare in 45 giorni».
Ma sia nella perizia che ieri in aula Paulillo non ha mai avuto titubanze nel ribadire la totale capacità di Hosen. Convincendo i giudici. Nonostante i dubbi che il pm ha continuato a ribadire. Anche dopo aver risentito il perito. Fino alla fine.
Georgia Azzali
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