L'autore di colonne sonore
Collaboratore di lunga data di Gabriele Muccino, Paolo Buonvino, classe '68, vincitore del David di Donatello e del Nastro d'argento per «Caos calmo», è uno dei più apprezzati autori di colonne sonore italiani, autore di musiche per i film, tra gli altri, di Michele Placido, Giovanni Veronesi, Paolo Virzì e Carlo Verdone. Il suo ultimo lavoro è la serie tv, di cui si è molto parlato, tratta da «Il Gattopardo».
Maestro Buonvino, come si fa a creare un tessuto di melodie che permetta al pubblico di tornare indietro nel tempo e di immedesimarsi in un’epoca lontana?
«Il caso de “Il Gattopardo” è esemplare in ciò: prima di iniziare a lavorare, ho scelto di tuffarmi nell’anima della Sicilia. Essendo di Catania ero avvantaggiato, ma ho voluto comunque scendere quanto più in profondità possibile studiando le sonorità insulari, coadiuvato da vari esperti e persino da un teologo. Poi è stato inevitabile, nell’anno e mezzo di composizione, intrecciare queste nozioni ed impressioni con il mio vissuto e la mia sensibilità».
Nel tema principale della serie, «Il valzer del Gattopardo», cosa appartiene alla tradizione e cosa a Buonvino?
«Premesso che adoro i valzer - ne ho inserito uno anche nella serie tv “A casa tutti bene” -, nel track in questione cito uno dei miei compositori preferiti, Vincenzo Bellini, catanese pure lui. Le note della sua aria “Ah, non credea mirarti”, tratta dal melodramma “La sonnambula”, compaiono all’inizio del mio valzer e le parole sono state inserite anche in una melodia successiva intitolata, non a caso, “Pensando a Bellini”.
Il valzer è una sorta di sintesi sonora della mentalità del Principe da dove emerge tanto la gioia quanto la malinconia di un’intera esistenza spesa in tante azioni futili, ma contraddistinta anche da relazioni vere, l’unico elemento che l’ha resa degna di essere vissuta. Tutta la famiglia Salina risulta peraltro soggetta a crisi e rivoluzioni.
«Esatto, la serie ne esamina parecchie, tutte diverse le une dalle altre: di certo la più evidente è quella legata al clima politico risorgimentale, ma anche nell’animo dei personaggi avvengono conflitti significativi. In “Lettere dal fronte” e ne “L’incanto sospeso”, ad esempio, ho provato a raccontare il sentimento di Concetta per Tancredi che matura nel brano che chiude l’ultima puntata, “Si fussi aceddu” (“Se fossi un uccello”): la figlia prediletta del Gattopardo, ora divenuta sua erede, impara a guardare con ottimismo al futuro proprio grazie a quell’amore per il cugino che non potrà mai spegnersi».
Quale musica ascolta e quali compositori per il cinema sono i suoi riferimenti?
«Passo facilmente e volentieri dal gregoriano alla trap, da Mozart al pop rock. Il jazz lo apprezzo meno. Morricone è un autore che ammiro tantissimo: ho avuto la fortuna di conoscerlo e di registrare nello stesso studio. Trovo talentuosi anche Max Richter e Jóhann Jóhannsson, molto espressivo, soprattutto in “Arrival”. Ultimamente ho trovato efficace la colonna sonora di “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Di Hans Zimmer mi piacciono le partiture in cui traspare ancora la sua artigianalità. Personalmente quando compongo il mio metronomo, la mia bussola, è senza dubbio la sicilianità».
Ci spieghi.
«Essere siciliani significa dover sempre fare i conti con le popolazioni che ne hanno fatto la Storia e ne hanno creato il Dna: Greci, Fenici, Arabi, Spagnoli, Normanni… Siamo figli di questa mescolanza etnica e culturale che credo sia doveroso far risaltare anche nella musica».
Che tipo di orchestra ha diretto per «Il Gattopardo»?
«Una molto ricca: archi (una quarantina), qualche legno, percussioni, una mandòla e un coro femminile. Simona Di Gregorio è riuscita ad interpretare con un perfetto timbro ottocentesco le canzoni popolari come “Spunta lu suli”».
Ha ricevuto indicazioni particolari dal regista?
«Tantissime. Per fortuna Tom Shankland, dopo che gli ho esposto alcune idee, tra cui il desiderio di comporre un valzer originale e di raccontare in musica sia la terra siciliana sia la famiglia di Don Fabrizio, lui ha semplicemente detto: “We’re twins!”».
Ha lavorato anche direttamente sul set?
«Sì, per supervisionare i playback, i pezzi di musica diegetica. È stato straordinario, ma ho dovuto viaggiare parecchio perché le location includevano una zona fuori Roma, Catania e persino Ortigia. Per di più c’erano 45 gradi, ma hanno contribuito a creare la giusta atmosfera».
Come si è confrontato con l’eredità di Nino Rota?
«La serie è completamente diversa dal kolossal del 1963 e la partitura di Rota interpreta bene le intenzioni di Visconti, ma non la sento molto nelle mie corde perché tende a tralasciare la sicilianità».
Se di un film classico andasse perduta la colonna sonora e dovesse essere musicato una seconda volta, quale sceglierebbe?
«Direi “Il tè nel deserto” o “Schindler’s list”».
Quale consiglio darebbe a un giovane compositore di colonne sonore?
«Cerca la musica e non la “suonica”. Le melodie che non funzionano sono quelle in cui le Muse tacciono. Così la semplice tecnica prevale purtroppo sulla rivelazione divina».
E lei l’ispirazione come la trova?
«Stando in silenzio o facendo esercizi di respirazione. Anche qualche lettura aiuta, con Battiato ci consigliavano reciprocamente dei testi. Prendi l’inizio del Vangelo apocrifo di Tommaso: “Colui che cerca, non cessi dal cercare finché non trova e quando troverà sarà commosso e quando sarà stato commosso contemplerà e regnerà sul Tutto”».
Emanuele Marazzini
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