Processo
«Fu premeditazione». Pronunciata dal pm Ignazio Vallario, la frase cade come un macigno nell'aula collegiale del tribunale. Per l'accusa, la fucilata con la quale Giorgio Miodini tolse la vita alla moglie Silvana Bagatti e la libertà (ammesso ne avesse più una) a sé stesso non fu un gesto né improvvisato né tanto meno compiuto in una sorta di trance. Per il pubblico ministero l'uxoricida avrebbe dovuto premere ancora il grilletto: «Voleva fare un omicidio-suicidio, ma gliene è mancato il coraggio». A provarlo, per Vallario, sarebbero i bigliettini con i numeri di telefono lasciati per casa: «Erano lì per la polizia: abbiamo anche la preparazione del luogo. Si è parlato di una brava persona, benvoluta da tutti, ma Miodini non era un santo. Detiene l'arma del nonno senza denunciarla (un reato che costituisce il secondo il capo d'imputazione, mentre il possesso delle cartucce il terzo), tiene il coltello sotto il cuscino...».
L'aggravante della premeditazione, aggiunta a quella del rapporto coniugale, porta a 25 anni la richiesta alla corte d'assise presieduta dal giudice Maurizio Boselli (a latere Francesco Magnelli). Vallario riconosce anche le attenuanti per l'imputato: «è reo confesso, ha tenuto un comportamento processuale collaborativo, ricordiamo poi il suo contesto di vita. Miodini non è certo un sanguinario assassino». Eppure, dovesse essere il quarto di secolo in cella la pena finale, l'ex tassista uscirebbe a 103 anni: l'età alla quale morì la mamma tenuta in casa fino all'ultimo, dopo che lo stesso appartamento di via Marx era diventato Rsa per il suocero e dopo che Miodini si era fatto tutore dei nipoti rimasti orfani.
Poi, era stata la moglie, sempre più depressa, autoreclusa in casa e refrattaria all'idea di sottoporsi alle terapie, a cominciare a dipendere da lui, anche per le faccende di minima sopravvivenza. Miodini quel «finché morte non vi separi» pronunciato all'altare 51 anni prima del fatale 15 maggio 2024 lo ha preso alla lettera. Andando oltre. Nemmeno la morte l'ha diviso dalla moglie: il suo destino resta legato all'interpretazione che la corte darà dell'omicidio di Silvana.
La responsabilità non è mai stata in discussione. Quella fu lo stesso Miodini ad attestarla con la telefonata al 113. «Venite, ho ammazzato mia moglie» disse dopo aver riposto il fucile. Per poi ripetere un'infinità di volte di averlo fatto senza rendersene conto: la fucilata che fece passare dal sonno alla morte la compagna di una vita a suo dire su di lui ebbe l'effetto di una sveglia. Che lo precipitò dal calvario domestico alle manette allora e agli arresti domiciliari in seguito. «La sua pena - sottolinea l'avvocato Filippo L'Insalata, titolare della difesa con il fratello Mario - il signor Miodini l'ha scontata negli anni accanto alla moglie. Era così asservito da finire per seguirla a ruota. Questa tragedia si è consumata in un contesto di tristezza e solitudine, nel quale anche la stessa coppia allontanava i vicini di casa».
«Ma quale premeditazione? - chiede Mario L'Insalata -. Si è trattato di un atto imprevedibile e privo di qualsiasi preparazione. Miodini ha fatto un gesto orrendo, ma quasi senza rendersene conto. C'è omicidio volontario e omicidio volontario». Un gesto privo anche di senso. «Così ha rovinato due vite». Se avesse voluto riprendersi la propria, Miodini avrebbe potuto ricoverare Silvana in una clinica per lungodegenti. Non avrebbe avuto problemi, sottolinea Mario L'Insalata, ricordando la consistenza dei risparmi della coppia: ricca per le mancate spese comportate da decenni di vita «monastica».
Ménage dettato da una «relazione sempre più stretta, intensa e pesante - ha dichiarato a inizio udienza Giuliano Turrini, direttore dell'ospedale psichiatrico privato accreditato Maria Luigia di Monticelli, consulente della difesa -. Un po' alla volta uno non ha più una vita. E un po' alla volta è come un contenitore che si riempie: alla fine l'emotività prevale sulla razionalità. Spesso è solo quando si compie l'”atto” che ci si rende conto».
Sia Filippo che Mario L'Insalata chiedono il minimo della pena per il loro assistito, specificando che le attenuanti dovrebbero comunque essere prevalenti sulle aggravanti: che siano due o una sola. Quasi quattro ore dopo avervi fatto ingresso, Miodini esce dall'aula, per tornare a Monticelli, dove è ai domiciliari. E viene curato. Deve essere la prima volta nella sua vita che qualcuno lo fa per lui.
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