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Intervista

Alessandro Azzoni, ambasciatore d'Italia alla Nato

Alessandro Azzoni, ambasciatore d'Italia alla Nato

di Claudio Rinaldi

07 Agosto 2025, 03:01

Alessandro Azzoni, tra qualche settimana entrerà in carica come ambasciatore e rappresentante permanente d’Italia alla Nato. Quali saranno i suoi compiti?

«Rappresentare il nostro Paese e coordinare la presenza italiana – civile, diplomatica e militare – nell’Alleanza atlantica, facendo valere i nostri interessi nazionali».

È un periodo drammaticamente molto caldo per la situazione geopolitica intorno a noi, e la Nato non ne è fuori.
«Arrivo in un momento non particolarmente facile per l’Alleanza, ma anche entusiasmante. Basta sfogliare un giornale o vedere un tg per rendersene conto. Un aspetto da sottolineare è la necessità di non sottovalutare il cosiddetto “fianco Sud”, cioè le minacce che arrivano dal Medio Oriente e dal Mediterraneo. È importante che la Nato lo consideri importante quanto il “fianco Est”».

Qual è la sua opinione sulle guerre in Ucraina e a Gaza? Vede il rischio che i fronti di guerra si allarghino?
«Io sono un diplomatico e, quindi, sono tenuto a essere ottimista e aperto al dialogo: è necessario mantenere aperti i canali di comunicazione, anche e soprattutto nei momenti difficili. È evidente che la diplomazia e le relazioni internazionali servono soprattutto nei periodi di tempesta, l’abilità del diplomatico è proprio sapere parlare con gli avversari. Quanto alla situazione attuale, riprendo la sintesi fatta dal segretario generale della Nato: non siamo in guerra ma neanche in pace».

Lei definisce il suo mestiere «una professione di pace». Mai come adesso.
«È sempre stato e sarà sempre così. La pace non è uno stato che ci arriva dal cielo: va costruita, va difesa, va protetta, attivamente, ogni giorno. Cito spesso l’esempio di Alice nel paese delle meraviglie, quando con la regina di cuori corre a perdifiato e resta sempre nello stesso posto. A volte bisogna fare così: perché se non si corre si va all’indietro».

Il Governo italiano sostiene la necessità che l’Europa si doti di una difesa comune. Ne siete davvero convinti?
«Sì, non c’è dubbio. L’Unione europea per la difesa spende circa un terzo di quanto spendono gli Stati Uniti e, a voler essere molto generosi, ha sì e no un decimo delle loro capacità militari. L’Europa si è seduta sul cosiddetto “dividendo della pace”: troppo a lungo alla sicurezza sono state dedicate poche attenzioni, poco tempo e poche risorse umane. È necessario senza dubbio spendere di più, ma soprattutto iniziare a spendere meglio. Meglio significa, appunto, in modo più coordinato».

Al di là del tema difesa comune, la diplomazia italiana è da sempre profondamente europeista. Quanto bisogno abbiamo di un’Europa forte?
«Un bisogno assoluto. Faccio un parallelo storico: alla fine del Quattrocento Carlo VIII di Francia scese nell’Italia del Rinascimento e delle signorie, dei Michelangelo e dei Leonardo, dei grandi signori illuminati. Ma Carlo aveva un esercito nazionale, molto compatto e molto moderno per l’epoca: e si mangiò le signorie italiane, una dopo l’altra, in pochi mesi. Tradotto, voglio dire che se non ci integriamo di più, il nostro futuro non sarà roseo. Essere divisi, deboli e ricchi non è certo una garanzia di sicurezza».

Fra le tante esperienze della lunga carriera, ce n’è una alla quale è più affezionato?
«A tutte. Perché la vita del diplomatico è fatta di esperienze e di vite che si sovrappongono, perché è un mestiere che ogni tre o quattro anni ti impone di impacchettare la tua vita e cominciarne una nuova. Un mestiere, sottolineo: non una professione. Perché, come tutti mestieri, si impara a bottega, come fare il falegname, il lavoro di uno dei miei bisnonni. S’impara osservando i maestri che ci guidano molto più che sui libri. Detto ciò, tutti i diplomatici sono molto legati al primo incarico: e io non faccio eccezione. Il mio “debutto” è stato da console a Barcellona. Al di là della città piacevolissima, iniziare la propria vita all’estero cercando di aiutare gli italiani in difficoltà è una bella scuola. E le assicuro che in quell’epoca, con due milioni di turisti italiani all’anno, le persone da aiutare erano tante».

Altri Paesi a cui è rimasto legato?
«La Turchia, soprattutto. Ma mi sento molto legato anche al mondo multilaterale: trovo affascinante essere in una stanza – che sia all’Onu, alla Nato, all’Ue o all’Osce – a incontrarsi e scontrarsi con persone di culture diverse. Da ogni cultura impari qualcosa. E, prima di tutto, impari che il lavoro del diplomatico, alla fine, è costruire ponti tra culture diverse».

I problemi logistici del girare il mondo nel suo caso sono “al quadrato”, visto che anche sua moglie è in carriera diplomatica.
«Lavora alla Farnesina, è direttore generale delle risorse umane. Certo, da anni per vederci facciamo ripetuti voli da una parte all’altra del mondo. Ma, alla fine, se è vero che ci sono problemi di distanza e di comunicazione, è anche vero che ci si capisce di più, perché i problemi sono gli stessi per me e per mia moglie».

E vostra figlia è, inevitabilmente, una cittadina del mondo.
«Certo. È nata in Italia perché lo abbiamo voluto noi: è stata in Austria, in Turchia, e adesso studia a Londra, felice come una Pasqua, perché Londra è una città meravigliosa».

Ma per lei nessuna città batte Parma, giusto?
«Parma è nel mio cuore. Sono affezionatissimo alla mia città, forse anche per questo continuo “sradicamento”, che mi ha fatto capire da subito l’importanza di individuare e curare le proprie radici. Le mie sono parmigiane, al cento per cento. Torno ogni volta che posso, anche per visite lampo. Per vedere i miei, per fare due passi fino a piazza Garibaldi e sentirmi a casa, per andare al Tardini».

Il tifo per il Parma non si è mai spento.
«Ci mancherebbe, quella per il Parma è una passione viscerale. Per anni sono rimasto abbonato, anche se riuscivo a venire solo per un paio di partite a stagione. Sempre in curva, nella “mia” Nord. Quando la società è ripartita da zero, dopo il fallimento, ho dato il mio contributo. La sera in cui siamo tornati in serie A, ero a Vienna, da solo. Ho stappato una bottiglia di Champagne e l’ho bevuta. E mi sono messo a piangere».

Cosa le manca di più di Parma?
«Sarebbe facile dire la cucina, ma sarei falso, perché in realtà, ovunque vada, ho sempre la mia “riserva”: un paio di salami, una mezza culaccia, gli anolini e i tortelli nel congelatore. Mi manca l'idea di una città dinamica ma tranquilla. Di una città provinciale, nel senso positivo del termine. Mi manca l’idea di poter avere più meno tutto ciò di cui ho bisogno, però senza dover lottare per averlo, come accade in una grande metropoli. Ecco cosa mi manca».

Claudio Rinaldi

© Riproduzione riservata

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