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Per i francesi sono «escargot à la Bourguignonne», vanto della cucina d’Oltralpe più raffinata. Si tratta delle lumache insaporite con burro, aglio e prezzemolo. Dalle nostre parti, in modo molto più ruspante, si tratta «dil lumäghi trifolädi» ed il gusto, rispetto alle più nobili lumache francesi, non è che cambi di molto. È sufficiente saperle raccogliere nel periodo giusto che, nel Parmense, iniziava nella magica notte solstiziale della «Rozäda äd San Zvan’» (23 giugno) fino al tramonto della ricorrenza di San Michele (29 settembre) «par San Michél pom, per e ilj ùltmi lumäghi in-t-al carnèr».
Dopo la raccolta, le chioccioline andavano preparate a dovere, secondo un’antica liturgia contadina, e cucinate con quell’abilità che un tempo avevano le nostre «rezdóre». La lumaca, oltre che dal punto di vista gastronomico, ispirò numerosi proverbi, filastrocche, leggende e diede pure il nome anche ad arcaici strumenti che fecero parte della cultura contadina dei nostri vecchi. Ad esempio, nelle nostre montagne, gli spalatori di neve erano convocati dal suono sordo della «lumäga», un conchiglione marino di lunghezza intorno ai 25-30 centimetri con il diametro di circa 15. Il «lumagär», soffiando dentro quell’arcaico strumento forgiato dalla natura, non solo richiamava la gente in occasione dei vari falò: quello di Carnevale, dell’Epifania, dell’ultimo dell’anno e di San Giovanni, ma lo utilizzava anche per richiedere l’aiuto di altri valligiani in caso di pericolo o di isolamento della borgata come in occasione di una frana o di una poderosa nevicata. Quando nel paese o nel borgo si doveva provvedere allo sgombero della strada pubblica il «deputato stradale», dunque, riuniva gli uomini soffiando ripetutamente nella conchiglia. Poi attribuiva agli spalatori i rispettivi incarichi circa i giorni di lavoro, il tratto di strada da sgombrare e, ovviamente, il compenso.
La «lumäga», retaggio dell’epopea delle emigrazioni dei nostri montanari in Corsica o in Francia per svolgere i faticosi lavori di segantini, taglialegna e minatori, solitamente, era custodita dalla famiglia più agiata ed importante del paese e il «lumagär», soffiando dentro quell’arnese, faceva sentire la voce e l’anima della propria comunità la cui eco si perdeva tra quelle cime imbevute di aria e di cielo.
Per i parmigiani è dunque la «lumäga», mentre il «lumagón» è tutta un'altra cosa ed è un termine che, in dialetto, indica una persona pigra, viscida ed ambigua. Mentre invece la lumaca, o meglio la chiocciola, è un esserino simpatico, antico residente degli orti d'un tempo quando di notte usciva dalla sua tana per mangiarsi in santa pace l'insalata imperlata di rugiada facendo così imbestialire, alla mattina, la «rezdóra» che aveva la triste ventura di rinvenire le foglie della sua lattuga o dei suoi radicchi («grùggn») bucherellati dalle indesiderate ospiti degli orti domestici. Un tempo, quando finiva il temporale estivo e l'arcobaleno sanciva la pace con Giove Pluvio, era il momento in cui la lumache uscivano dalle loro tane per andare a pascolare negli orti.
Le «rezdóre», che conoscevano le abitudini delle chiocciole, uscivano di casa munite di secchi o cestini e procedevano alla raccolta degli animaletti che, da predatori notturni di orti, si trasformavano in prede o, meglio ancora, in piatti molto gustosi.
Nel dopoguerra anche nella nostra città si raccoglievano le lumache come, ad esempio, negli orti ricavati nelle bassure della Cittadella. Esperti raccoglitori di chiocciole furono gli ortolani Dante e Aldina, mentre nella Bassa di Frassinara («Frasanära») il raccoglitore più noto era «Marién» che fu pure un abilissimo «grotadór» (pescatore di pesci con le mani), «in-t-i fondón ädla Pärma». Un altro mitico raccoglitore di lumache fu un certo «Bramo» residente ai «Capanón ädla Navètta» che le andava a raccogliere in quel boschetto di gaggie che, un tempo, formava quella foresta urbana nei pressi Ponte Dattaro.
Le lumache erano apprezzate fin dall'antichità sia dai greci che dai romani. In un trattato di cucina di Apicio, che spurgava le lumache nel latte per dieci giorni prima della cottura, sono custodite quattro ricette di lumache fritte. Plinio il Giovane riporta che i ricchi ne mangiavano in gran quantità provenienti da allevamenti dove venivano nutrite con farine di cereali ed erbe aromatiche. Comunque, l'inventore dell'elicicoltura, pare sia stato tale Fulvio Lippino nel 49 a.C. il quale importava chiocciole da tutte la parti del mondo. Per soddisfare i suoi ricchi clienti creò addirittura un servizio di traghetti dalla Sardegna, Sicilia e Capri che trasportavano lumache fresche per poi essere cucinate nelle sontuose dimore dei ricchi signori di Roma. Anche nel Parmense, la lumaca, vanta veri e propri estimatori come il docente universitario Pier Giovanni Bracchi e l’indimenticabile giornalista borgotarese Franco Brugnoli, non solo raffinati gourmet, ma anche profondi conoscitori di elicicoltura. Memorabile un incontro svoltosi alcuni anni fa al ristorante «Nizzoli» di Villastrada di Mantova tra illustri degustatori di lumache, nel corso del quale Bracchi citò, a proposito di lumache, addirittura Goethe il quale le evocò nella magica notte di Valpurga (30 aprile) quando le fate escono dai boschi unitamente agli elfi secondo la tradizione celtica. Nella tradizione popolare parmigiana esiste anche una filastrocca che le nonne cantilenavano ai bambini: «Lumäga, lumagen'na, tira fora la to cornén'na. Se no a' t mètt in padéla ti e to soréla». Un altro antico adagio parmigiano si riferisce, invece, alla sensibilità delle antennine della lumaca pronte a ritrarsi ad ogni seppur minimo ostacolo: «Permalóz cme i coròn dla lumäga». Se la cosmetica suggerisce prodotti a base di bava di lumaca contro l'invecchiamento della pelle, nella farmacopea è utilizzata anche negli sciroppi contro la tosse ed i problemi di stomaco. Addirittura, i nostri nonni, pensavano che, ingoiando lumache vive, si potesse curare l'ulcera in quanto erano convinti che la bava cicatrizzasse la ferita. Una terapia davvero singolare seguita, molto probabilmente, da chi, anche se soffriva di ulcera, aveva un «stòmmogh da struss».
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