Il caso
Della morte del padre venne a sapere quando era ormai troppo tardi. Fu già tanto per lei allungare una carezza alla bara prima del funerale. A dividerla dal genitore che non vedeva da mesi, una denuncia sporta da lui contro di lei e il braccialetto elettronico imposto per impedirle di avvicinarsi. Fu una doppia ingiustizia la mancanza di quell'ultimo abbraccio: sarebbe stato anche il primo, visti i rapporti tossici da sempre.
Invece, morto il padre, rimase come ultimo «legame» il processo per maltrattamenti in famiglia e lesioni personali a carico della quarantenne alla sbarra per avere molestato, insultato, minacciato e percosso il padre allettato. Un'accusa che alla fine si rivelò l'ultima violenza subita da chi in tribunale sarebbe dovuta entrare come parte offesa. Questo quanto stabilito dal giudice Paola Artusi, che ha assolto la donna con formula piena, «perché i fatti non sussistono».
E i «fatti» erano molteplici. Secondo il capo d'accusa, quasi ogni giorno la figlia avrebbe scosso il letto del padre, l'avrebbe strattonato o comunque svegliato in modo aggressivo. Gli avrebbe sibilato «ti uccido» pieni d'odio, conditi con appellativi che tiravano in ballo la nonna. Una sera lei avrebbe acceso tutte le luci nell'appartamento del genitore, per obbligarlo ad alzarsi dal letto (nel quale lui era costretto da tre anni) per spegnerle: poi lo avrebbe spinto, facendolo rovinare sul pavimento.
In piedi davanti al padre che aveva battuto la testa e la schiena, lei si sarebbe guardata ben dal prestargli soccorso, sbeffeggiandolo con frasi di questo tenore: «Ora sei lì a terra, vediamo chi ti dà aiuto, neppure posso aiutarti a modo mio». Quindi, con una raffica di insulti, gli avrebbe pure scagliato contro una bottiglietta. Le aggressioni si sarebbero ripetute in almeno altre due occasioni: sempre stando alla denuncia, lei avrebbe colpito il padre con un frustino da cavallo. Un altro giorno, dopo averlo fatto cadere, lo avrebbe preso a calci nelle parti intime.
Dopo che i carabinieri avevano già ascoltato un paio di volte il pensionato, lui fece denuncia nel marzo del 2024. Sottoposta al divieto di avvicinamento, la donna, che abita nell'appartamento accanto a quello del genitore, fu costretta a chiedere ospitalità. Quella denuncia, però, aveva tanto il sapore della ripicca: il padre non aveva perdonato alla figlia di aver fatto sequestrare la doppietta detenuta in casa. Le sue accuse, lui (ammesso che riuscisse ad alzarsi) non avrebbe potuto riferirle davanti al giudice: morì poco dopo la prima udienza.
Il processo permise di rivelare come si fosse ribaltata la situazione. Emerse grazie alle consulenze della psichiatra Maria Zirilli, che aveva in cura la donna (conosciuta mentre quest'ultima era ricoverata per disintossicarsi dall'abuso di alcol) e del professor Fulvio Lauretani, geriatra del padre dell'imputata. Entrambi riferirono che il pensionato era affetto da demenza frontotemporale e parkinsonismo vascolare aggravati dall'abuso d'alcol: da qui una possibile rappresentazione distorta della realtà. Inoltre, come dimostrato dai numerosi accessi al Pronto soccorso, l'uomo era stato soggetto a numerose cadute per proprio conto. Il ribaltamento della rappresentazione della realtà sarebbe stato facilitato anche da un terreno fertile: amici di vecchia data della famiglia riferirono che fin da piccola la figlia era stata maltrattata e picchiata dal padre. Alla fine, il primo a chiedere la sua assoluzione è stato il pm. Resta quell'abbraccio riconciliatorio: nessun appello potrà mai liberarla dalla condanna di non averlo ricevuto.
Roberto Longoni
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