L'INTERVISTA
«Da ragazzo avevo un sogno: quello di diventare un giocatore di pallavolo professionista. Giampaolo Montali, a 16 anni, mi prese da parte e mi disse: “Studia”. Fu dura, ma si rivelò la prima grande lezione della mia vita».
La prima cosa che viene in mente a Marcello Cattani quando pensa a Parma è quell'episodio di tanti anni fa. Non lo sapeva ancora, ma sarebbe stato l'inizio di una carriera di successo. Facciamo, però, un passo indietro.
Il primissimo ricordo legato a Parma?
«La campagna. Mio padre era un manager internazionale, a un certo punto della sua vita lavorativa, 1979, decise di cambiare strada lasciando Milano per fondare un allevamento di cavalli da corsa a Carignano. I suoi genitori erano di Bosco di Corniglio, c'era un già un forte legame con il territorio. Ero cresciuto a Milano, una metropoli al tempo molto problematica: ricordo ancora il timore per Vallanzasca e la paura delle Brigate Rosse. Da Milano a Carignano: una dimensione completamente diversa, molto più autentica e genuina perché uscivo da un mondo dove già si facevano delle scelte su chi frequentare per entrare in uno di relazioni autentiche».
E Bosco di Corniglio?
«Un altro luogo del cuore. Abbiamo avuto lì una casa per tantissimi anni, l'abbiamo venduta di comune accordo quando mancò mia madre: serbava ricordi troppo forti. Non posso dimenticare le estati bellissime da ragazzino, popolate da compagnie immense che oggi non ci sono più».
Poi le scuole. A Parma.
«Sì, le medie a Carignano e poi la scuola tecnica di agraria a Parma e infine l'Università: scienze biologiche con indirizzo biomolecolare e la scuola di specializzazione in chimica e tecnologie alimentari».
Quindi non era partito con l'idea di fare il manager.
«A 18 anni è difficile scegliere, non si hanno ancora le idee chiare sul futuro. Il legame era con il mondo dell'alimentare che rappresentava la qualità e la vocazione del territorio. In più mio padre aveva lavorato nell'industria alimentare...».
Entriamo nel mondo del lavoro.
«Brevi esperienze lavorative in Parmalat e alla Greci ma capii piuttosto rapidamente che la vita in un laboratorio non faceva per me sebbene avessi fatto una tesi sperimentale alla Stazione sperimentale dell'Industria delle Conserve su un batterio che creava grandi problemi di sanità perché nessuno ne aveva ancora studiato la capacità di resistere nel processo di trasformazione della carne. Il mio percorso era stato di ricerca e di innovazione ma mi resi presto conto che il camice e la provetta non erano il mio desiderio professionale».
Come se ne accorse?
«Mi aiutò ad aprire gli occhi la mia prima azienda, la Procter & Gamble, che fu una grandissima scuola di marketing. Mi avvicinò a un mondo parallelo che era quello della salute perché all'epoca aveva una divisione farmaceutica focalizzata sulla ricerca nel trattamento dell'osteoporosi».
Però non ha mai lavorato a Parma?
«No. Dopo gli studi la direzione è stata guidata dalle opportunità di lavoro all'interno di gruppi multinazionali. Ho sempre seguito realtà dove sono riconosciute le qualità».
Poi ha abbracciato la farmaceutica e non l'ha più lasciata.
«Esatto. È un mondo bellissimo quello dell'industria farmaceutica perché coniuga due valori fondamentali: uno è l'etica, ovvero non c'è cosa più importante che avere un impatto positivo sulla salute e la qualità della vita delle persone; l'altro è l'innovazione. Quando entri in questo mondo è difficile uscirne: il tasso di innovazione, di cambiamento, di investimenti - e di rischio, aggiungo - per scoprire nuovi farmaci lo rende di fatto unico. Oggi l'industria farmaceutica è il settore al mondo che investe maggiormente in Ricerca e Sviluppo, ha superato anche l'Information Technology».
Perché aleggia allora l'idea malsana che il cosiddetto «Big Pharma» sia uno dei grandi mali contemporanei?
«Credo che alla base ci sia molta ignoranza e a volte dell'ideologia. Non dimentichiamo che il nostro paese è quello con il più basso tasso di cultura scientifica e con il più alto tasso di abbandono scolastico. Purtroppo a volte è difficile spiegare il valore dell'industria farmaceutica. L'esempio lampante sono i vaccini. Noi ci siamo liberati dal Covid grazie ai vaccini sviluppati dalla ricerca dell'industria farmaceutica in 9 mesi, dall'identificazione della sequenza del genoma del virus fino alle prime vaccinazioni. Lì si è compreso il valore della salute, perché oggi in tutte le ricerche demoscopiche la salute è al primo posto, ha superato anche il lavoro o le preoccupazioni sociali. Non solo, l'epidemia aveva depresso anche il Pil: per ogni mese di lockdown l'Italia perdeva 14 miliardi di euro di gettito fiscale. Quindi anche volendo valutare l'aspetto economico l'investimento è valso la candela».
E i no vax?
Indubbiamente c'è chi ha una distanza dalla conoscenza scientifica e un approccio ideologico rispetto a tutte le possibilità di oggi, non penso solo ai vaccini, ma alla tecnologia diagnostica, alla prevenzione. Basta guardare la rivoluzione che ha toccato l'oncologia degli ultimi vent'anni con l'avvento dell'immunologia: ha consentito di allungare la possibilità di sopravvivere con una migliore qualità di vita anche di fronte a diagnosi infauste. Investire in Ricerca e Sviluppo è la migliore assicurazione che possiamo avere sul futuro, ma è innanzitutto una conquista culturale e non saremmo dove siamo oggi se non avessimo investito in ricerca e innovazione dieci, venti, trent'anni fa...»
Ai giovani cosa dice?
«Ai giovani dico di avere sempre la curiosità del perché avvengono i fenomeni sicentifici. È quella che mi ha animato fin dall'inizio. E poi abnegazione. Ricordo le serate per non dire le notti passate a fare ricerca alla Stazione sperimentale. E soprattutto scegliere un percorso che può lasciare tante porte aperte, magari alcune si chiuderanno per scelta ma altre si apriranno».
A proposito di giovani, torniamo allo sport. Che ruolo ha avuto nella sua vita?
«Presi da mio padre la passione per il ciclismo, ma ben presto lo abbandonai per la pallavolo dove ebbi l'opportunità di giocare con atleti del calibro di Aiello, Giani, Cova. Avevo un'ottima elevazione ma non avevo i centimetri. Conobbi anche quello che oggi è uno dei miei più cari amici, Giampaolo Montali. Il discorso che mi fece a 16 anni, come dicevo all'inizio, mi diede un feedback molto duro, ma prezioso per la mia crescita. Lo sport aiuta a maturare. Oggi la passione è per la corsa ma mi piace anche il tennis. Per reggere certi ritmi credo sia essenziale preservare il benessere psicofisico con un'attività continuativa».
Quanto fu importante quel «no» di Montali?
«Tanto. Noi viviamo di feedback. Soprattutto all'interno delle aziende. Nelle multinazionali è importante dare e ricevere feedback e per costruire una carriera bisogna circondarsi di grandi mentori, soprattutto nella fase iniziale del proprio percorso. In questo senso sono stato molto fortunato perché sulla mia strada ho incontrato importanti mentori che sono diventati Ceo di aziende globali del settore. Il confronto è fondamentale per crescere, per capire come resettare, evolvere i propri obiettivi, adattare il percorso alle proprie ambizioni».
E allora torniamo all'industria farmaceutica. Come vive le responsabilità?
«Ho il privilegio e la responsabilità di lavorare in Sanofi, l'azienda farmaceutica più grande in Europa, e in qualità di presidente di Farmindustria di rappresentare l'intero settore in Italia. Io la vivo come una grande responsabilità perché oltre a far crescere l'economia reale - produzione, export, occupazione altamente qualificata - c'è una forte attenzione all'inclusione sociale e alla sostenibilità, elementi distintivi dell'industria farmaceutica, come ci insegna Chiesi sul territorio di Parma. Grazie alla ricerca oggi stiamo aprendo dei fronti di innovazione di portata enorme in tutte le aree terapeutiche. Sono cambiamenti quasi epocali che spesso si fatica a comprendere. Bisogna pensare alla salute come a un investimento, non come un costo».
La farmaceutica è leader negli investimenti in ricerca e sviluppo. Ma le condizioni sono favorevoli? Al governo italiano e all'Europa cosa chiede?
«Nessuno investe più di noi, l'industria farmaceutica in Italia è la numero uno in Europa per valore della produzione che ha toccato 52 miliardi nel 2023 e nell'export siamo cresciuti anche più degli Stati Uniti. È un patrimonio nazionale che dobbiamo difendere: snellendo la burocrazia e creando i giusti incentivi si può crescere fino a quasi il 20% da qui al 2030. Si parla tanto di transizione ambientale ma non si parla della transizione della salute e questo è un problema perché vuol dire dimenticare gli anni del Covid. La transizione della Salute poggia da un lato sulla ricerca e lo sviluppo delle aziende e dall'altro sulla capacità di utilizzare i dati. In questo siamo il primo settore al mondo che ha applicato e scalato l'intelligenza artificiale per accorciare i tempi di ricerca e sviluppo dei farmaci. E se oggi abbiamo la capacità di gestire miliardi e miliardi di terabyte di dati è perché in precedenza si è investito».
Quindi?
«Questo è un settore con un rischio elevatissimo di impresa, normalmente il tasso di successo è 1 a 10.000 per i nuovi farmaci e un nuovo farmaco richiede in media un investimento in R&D di oltre 2 miliardi di euro. L'Europa deve fare un salto quantico nella capacità di connettere l'innovazione alla macreconomia e alla geopolitica perché i players con cui ci confrontiamo sulle materie prime - i principi attivi dei farmaci - sono anche gli hub di ricerca più avanzati, Stati Uniti, Cina, India, Singapore, Emirati Arabi Uniti, Arabia, dove si creano le migliori condizioni per fare ricerca. Gli Stati Uniti e la Cina hanno allungato la proprietà intellettuale sui farmaci, l'Europa invece vorrebbe addirittura accorciarla: è la direzione per andare a sbattere contro un muro perché vuol dire perdere attrattività. Negli ultimi vent'anni abbiamo perso il 25% degli investimenti in R&D rispetto agli Stati Uniti, oggi su dieci farmaci approvati dall'Agenzia Europea 6 sono americani e 2,5 cinesi. Dobbiamo reagire con chiarezza strategica mettendo il brevetto al centro come fattore essenziale per attrarre nuovi investimenti e competenze, sviluppando collaborazioni come noi abbiamo fatto con la Fondazione Its Academy a Roma. C'è un mismatch in Italia tra le competenze disponibili e quelle di cui avremmo bisogno che pesa per quasi 40 miliardi di euro. Bene: più del 10% è a carico delle imprese farmaceutiche. Oggi cerchiamo non solo laureati Stem o in medicina e scienze biologiche, ma anche ingegneri informatici e di processo perché nell'industria farmaceutica si lavora con l'intelligenza artificiale, la realtà aumentata, la gestione digitalizzata delle linee produttive. Ecco, questa è l'industria farmaceutica che il grande pubblico non conosce».
Spesso il discorso sui farmaci viene ridotto a una questione di costi...
«I costi industriali nella produzione dei farmaci rispetto al 2021 sono cresciuti del 30% perché da una parte è esplosa la domanda durante e dopo il Covid, dall'altra i grandi produttori di principi attivi sono in Cina e in India; l'Europa è esposta al 75% su questi principi e del restante 25% il primo produttore resta l'Italia. I farmaci hanno un alto valore e dobbiamo uscire dalla logica del costo ed è quello che stiamo cercando di fare con Farmindustria e il governo. Siamo ampiamente in grado di dimostrare i vantaggi clinici e anche previdenziali diretti e indiretti dei farmaci. Ma se non cambiamo i modelli di valutazione che oggi funzionano al minor costo non riusciremo ad aprirci completamente all'innovazione, che fatalmente andrà dove ci sono condizioni di brevetto e di riconoscimento dell'investimento superiori. Avere prezzi rimborsati dei farmaci molto bassi non è un aspetto positivo. Il mondo è cambiato: come ha detto il presidente Xi Jinping annunciando nel 2022 a Wuhan un progetto di investimento decennale da 600 miliardi di dollari nell'industria farmaceutica, questa è una guerra economica. O l'Europa capisce il messaggio o rischiamo di soccombere. Non c'è tempo da perdere. Dobbiamo creare un'Europa che comprenda maggiormente il valore della ricerca e dell'innovazione e lo sappia connettere con leggi flessibili all'economia reale e quindi all'industria».
L'industria farmaceutica italiana è all'avanguardia. Questo è possibile nonostante il pubblico o grazie a una buona collaborazione tra pubblico e privato?
«L'Italia è un paese che zoppica per tanti versi: tanta burocrazia, governi che durano poco... I risultati sono possibili grazie innanzitutto alle competenze che si sono formate e sono state accresciute dai privati. La nostra industria investe mediamente quasi 4 miliardi di euro ogni anno tra ricerca clinica e industriale. Un salto quantico rispetto a 20 o 30 anni fa. Quest'anno siamo diventati quarti nell'export, abbiamo superato anche il Giappone grazie proprio all'industria farmaceutica. Il punto è non frenare come dice Giorgia Meloni, lasciamo lavorare chi vuole lavorare e creare ricchezza diffusa. Questo dobbiamo fare e chiediamo al governo di ridurre la burocrazia ed essere più attrattivi negli investimenti, penso a un rilancio della disciplina del patent box. E poi c'è un altro capitolo che condiziona la competitività: il payback farmaceutico. Va bene investire sul sistema sanitario in un Paese che ha invertito la piramide demografica ma dobbiamo guardare al Pil per sostenere la crescita».
Questo governo come si sta ponendo?
«Abbiamo per la prima volta dopo tanti anni un governo che ha una gittata di legislatura e questo consente di lavorare in prospettiva e di condividere una strategia. La nostra industria ha tempi molto lunghi di ricerca e sviluppo, vive necessariamente di programmazione in condivisione con Mimit e Ministero della Salute. Quest'ultimo è fondamentale che continui a investire sul fondo sanitario e sulla spesa farmaceutica sciogliendo però il nodo del payback che sulla spesa ospedaliera pesa - per le aziende - per oltre due miliardi. Oggi produrre farmaci con un valore di rimborso pari a un mese di terapia al costo di un caffè non è più sostenibile perché il produttore cinese invierà i principi attivi per fare l'antibiotico pediatrico ai nostri vicini della Svizzera che riconoscono un valore di 5 volte superiore. Una prossima crisi, che sia sanitaria o economica, non può prescindere dalla salute e dai farmaci e per darci sicurezza dobbiamo aumentare la capacità produttiva. Dobbiamo essere più bravi, ridurre la burocrazia e fare partnership tra industria, università e governo. L'Emilia-Romagna in questo rappresenta un distretto di eccellenza e la sfida per Parma, che da poco ha accolto il Biotech Center di Chiesi e a San Polo ha un'altra eccellenza come Gsk, è quella di ambire a un terzo grande player. Chiesi proietta oggi Parma nel futuro del Biotech e questo ha un valore che non è esclusivamente industriale, ma un valore sociale per Parma e per tutto il territorio».
Il mondo sta cambiando velocemente, l'Europa meno. A Bruxelles per mesi si è parlato più di incarichi che di progetti. Come giudica l'Europa di oggi sullo scacchiere mondiale?
«Personalmente credo sia necessaria un'inversione di rotta della commissione von der Leyen 2 perché nel suo primo mandato non ha saputo dare una strategia industriale equilibrata nel suo primo mandato rispetto ad esempio al Green Deal. C'è un problema ideologico in Europa e non riguarda solo il nostro settore, però sono ottimista perché Enrico Letta e Mario Draghi hanno settato la base delle aspettative e le linee di indirizzo con i loro Report. È chiaro che dobbiamo rivedere il sistema di governance europeo, a partire dal diritto di veto di un paese. Serve una crescita nell'abbandonare i nazionalismi e sposare una strategia industriale di incentivi sovranazionali. L'eccesso di regolamentazione sta strangolando l'industria e l'agricoltura».
Ad esempio?
«L'Ue adotta provvedimenti folli come quello sulla legislazione farmaceutica che dal febbraio 2025 prevede il nuovo dispositivo anticontraffazione per il packaging. L'Europa sta facendo di tutto per favorire i nostri diretti competitors anziché mettere al centro l'innovazione».
Qual è il ruolo di Farmindustria all'interno di Confindustria?
«C'è grande sintonia con Emanuele (Orsini, ndr); siamo tra i primi stakeholders di Confindustria e vogliamo contribuire ad avere una strategia chiara con il governo italiano e verso l'Europa per definire insieme una strategia industriale moderna, innovativa e competitiva. Abbiamo rispetto a Stati Uniti, Cina, India il Pil più basso e il costo del denaro e l'inflazione più alti ma possiamo farcela perché all'interno di Confindustria ci sono aree di eccellenza, settori molto forti che possono dare un contributo alla crescita e all'evoluzione anche del modo di fare rappresentanza. Queste sono le aspettative che abbiamo nel collaborare con Emanuele Orsini, e per la prima volta abbiamo due vicepresidenti espressi da Farmindustria, Lucia Aleotti e Francesco De Santis».
Potesse esprimere un desiderio?
«Che il paese pensi sempre ai fondamentali, che non possono prescindere dal valore economico e sociale dell'impresa, dell'industria e al ruolo che ha sul progresso sociale. Sogno un paese che possa esprimere altri champions come l'industria farmaceutica in grado di battere gli Stati Uniti sul terreno dell'Innovazione. Sogno una collaborazione che si traduca in migliori opportunità per il sistema pubblico e privato per rendere l'Italia più sicura, moderna, recettiva».
Come si trova a lavorare in un gruppo francese stando in Italia?
«È molto bello, ne vado fiero. Sanofi è la prima azienda farmaceutica europea, in Italia conta 2000 dipendenti e tre siti produttivi; l'Italia è importante per Sanofi ma anche Sanofi è importante per l'Italia. E' una azienda molto italiana non solo nel management, ma nei valori.
Dove si svolge la sua vita?
«Tra Roma, Milano, Parigi, un po' gli Stati Uniti. Sono un cittadino del mondo, sempre con la valigia».
E Parma?
«Torno nel weekend o appena posso. La mia famiglia è qui, mia moglie e i miei figli che studiano qui».
Un luogo che ama di Parma?
«Piazza Garibaldi e passeggiare nelle vie del centro il sabato mattina».
Com'è la città oggi?
«Vive problematiche che hanno un po' tutte le città, però dimostra sempre grande attenzione al benessere sociale. Credo che l'essere “piccola” se da una parte è un limite dall'altra è proprio la sua grande caratteristica. A volte si lega un po' troppo al suo passato, servirebbe un pizzico in più di innovazione. Come sta facendo Chiesi».
Letture? Ha il tempo?
«Poco, ma amo molto i saggi di storia militare e la storia in generale. È importante ripercorrere la storia per avere sempre chiaro che cosa non dovrebbe accadere. La storia è qualcosa che si ripete e la perversione dell'essere umano è non capirlo. Pensavamo di essere arrivati ad un punto, prima del Covid, diciamo di “tranquillità”, dove le materie prime erano commodities disponibili in maniera illimitata e a basso costo. Il Covid, oltre all'emergenza sanitaria, ha ribaltato tutti i paradigmi della macroeconomia e della geopolitica generando un mondo frammentato e imprevedibile che richiede uno spirito di adattamento enorme. L'unica cosa che possiamo fare è innovare per essere più forti nel futuro».
Cosa farà da grande?
«Non posso rinunciare al connubio unico tra ricerca, innovazione, economia e salute: il mio desiderio è continuare a operare in questo settore e lasciare un contributo forte a tutta l'industria farmaceutica».
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