EDITORIALE
Il 18 settembre 2015 l’Epa - l’Agenzia statunitense per la protezione ambientale - comunicava che il Gruppo Volkswagen aveva installato illegalmente un software per aggirare le normative sulle emissioni di ossido di azoto da gasolio. Iniziava così il «Dieselgate» che nel volgere di pochi giorni sarebbe deflagrato in uno dei più grandi scandali industriali della storia. Oggi, a dieci anni esatti da una vicenda che partì da Wolfsburg ma ha finito per travolgere l’intera filiera automobilistica europea, stritolata poi da una legislazione miope e da scommesse industriali avventate, è lecito domandarsi cosa rimane di quello che un tempo era il fiore all’occhiello dell’ingegno europeo e che oggi somiglia a un pugile alle corde dopo un decennio sconvolgente. Già, perché dopo il «Dieselgate», che diede inizio al prepensionamento dei motori termici diventati di colpo la sintesi di ogni male, non ci siamo fatti mancare nulla: il Covid, la crisi dei microchip (oggi molto più importanti dei pistoni), la guerra dei dazi, la svolta dogmatica di Bruxelles verso la transizione ecologica che ha spalancato le porte ai cinesi, leader mondiali nella produzione di auto elettriche, nella lavorazione dei materiali per le batterie, nel controllo ed estrazione delle terre rare.
Quello che è accaduto alle quattro ruote in appena un decennio non si era mai verificato dalla nascita dell’auto, nonostante due guerre mondiali e la Grande depressione. In Europa siamo nel mezzo di una transizione che ancora nessuno sa se andrà in porto (la fatidica data del 2035 è in discussione ma resta ancora ben evidenziata sul calendario) mentre buona parte del mondo continua a inquinare allegramente - anche a monte della catena produttiva di vetture elettriche - nonostante qualche segnale dal Far East dove nel primo semestre la quota di elettrico ha raggiunto cifre robuste in Cina (30%), Thailandia (24%) e Vietnam (42%) secondo l’ultimo rapporto di Transport & Environment. In Italia, per la cronaca, siamo intorno al 5%…
Certo, nel vecchio continente le cifre sono un po’ più alte, eppure la crisi di quella che un tempo era la «locomotiva d’Europa» è drammatica: la Germania ha già perso 250mila posti di lavoro nell’automotive e ce ne sono altri 98mila a rischio. Prima della pandemia in Europa si immatricolavano quasi 16 milioni di auto l’anno, oggi si superano di poco i 10 milioni. Un’auto su cinque nel mondo era made in Europe, oggi pesiamo appena il 6% mentre la Cina detiene oltre il 35% della produzione, più di Stati Uniti ed Europa messi insieme.
Siamo lontani dai massimi globali in termini di produzione e vendite, ma è l’Europa il malato più grave: mercato a picco, produttori in forti difficoltà economiche e una domanda che non incontra in alcun modo l’offerta. Perché? Cosa è successo dal 2015, quando in Italia l’auto elettrica era un’eccentrica rarità (la più venduta era la Nissan Leaf, 390 pezzi, uno al giorno) e Elon Musk era «solo» un visionario noto agli addetti ai lavori, l’invasione di tablet nell’abitacolo era agli albori, gli aggiornamenti «over the air» non esistevano, il risiko era in fase embrionale (Stellantis ancora non esisteva) e i cinesi non ancora ripartiti sulla via della seta 2.0 erano solo quelli capaci di copiare e proporre qualche modello vecchio, brutto e insicuro tramite avventurosi importatori. Oggi la Cina, primo mercato mondiale, dopo aver attirato le case premium europee illudendole di poter comandare sotto la Grande muraglia, ha imparato a costruire auto coraggiose, economiche e all’avanguardia, soprattutto se parliamo di elettrico, tanto che l’export europeo in Cina nei primi sei mesi è crollato del 40%. Pechino gioca con altre regole, lo sappiamo. E vale, ovviamente, anche per l’auto: i dazi europei non spaventano produttori che possono permettersi sovvenzioni di Stato, gigantesche economie di scala e costi di produzione irrisori rispetto a noi. Tutto questo l’Europa non lo ha visto. E come ci ha ricordato martedì Mario Draghi «il nostro modello di crescita sta svanendo».
L’auto, in questo senso, è l’esempio forse più lampante e irrita constatare come si è dissipata una storia di innovazione, di ingegneria, di capacità, di leadership industriale. Preoccupata da un lato di cancellare l’immagine del Dieselgate e dall’altro di mostrare il suo lato politicamente più ecologico, Bruxelles ha fissato paletti irreali e target irrealizzabili. L’idea era ed è lodevole, ma per dirla col poeta, «il modo ancor ci offende». I costruttori hanno finito per snaturarsi proponendo auto che il pubblico non vuole, non si può permettere o semplicemente non è pronto ad affrontare. Arrivano così progetti come la 500 elettrica che dopo il flop sul mercato, con pesantissime ripercussioni sulle fabbriche italiane precipitate ai livelli produttivi degli anni ‘50, viene riprogettata come ibrida con enormi perdite di tempo e di denaro. E quell’idea geniale che fu la Smart? Da quando è diventata elettrica è sparita dalla circolazione…
«Gli obiettivi fissati dall’Europa per il settore auto per il 2030 e 2035 - ha detto qualche giorno fa Jean-Philippe Imparato, responsabile Europa di Stellantis - non sono più raggiungibili, a meno che non si ipotizzi di andare incontro a un crollo del mercato di circa il 30% o al tracollo finanziario di tutti i produttori in Europa». Peccato che Bruxelles per l’ennesima volta balbetti. Ursula von der Leyen ha riannodato la scorsa settimana i fili del «Dialogo strategico» con il settore, ma le sue parole che volevano suonare rassicuranti quando ha detto che nel futuro vede una E-car - dove quella E non sta solo per elettrica, ma anche per economica ed europea - suona vuota. Non si vede un progetto concreto, non si capisce come l’Europa possa bastare a se stessa per costruire le batterie, non è chiaro cosa si intende fare davvero per rispettare il principio di neutralità tecnologica invocato a gran voce dall’industria e dal mercato. Un settore che vale mille miliardi di euro di Pil europeo e impiega oltre 13 milioni di persone non merita questo. Ma soprattutto nessuno di noi può più permetterselo.
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