Meschi: "Nate per anziani e pazienti fragili, le Unità mobili sono un'esperienza unica in Italia"
Vogliamo uscire dal reparto insieme all'ultimo malato». Dice così, Tiziana Meschi, direttrice dell'Ospedale Covid Hospital Barbieri e del Dipartimento medico-geriatrico-riabilitativo dell'Azienda ospedaliero-universitaria. Lo ripete sottovoce, a se stessa, alla fine di un discorso sui modelli di sanità per il futuro. È l' ultimo concetto, ma quello che li riassume tutti, la linea guida: a fianco del paziente, dalla sua parte, mai farlo sentire solo. Alleati. Parliamo di anziani e di malati fragili, delle patologie più frequenti e di come curarle. «Adesso ci occupiamo di Covid a tempo pieno, affinché l'ospedale non-Covid possa proseguire la sua attività, ma i modelli di assistenza che abbiamo sperimentato fino a un anno fa sono un tesoro di esperienza a cui attingiamo tuttora e che ci indicano la strada futura, quando saremo fuori dall'epidemia». Il mantra è composto da tre lettere: «UMM», unità mobili multidisciplinari, in sostanza l'ospedale che va a casa del malato. Un'esperienza pilota, un «modello Parma» che fa già scuola e che è stato oggetto di pubblicazioni scientifiche. Potrebbe essere, questa, un'alternativa da potenziare per la sanità dei prossimi anni? Da un lato, la storica centralità dell'Ospedale inteso come ombelico dell'assistenza attorno a cui tutto ruota, paziente compreso; dall'altro, un'esperienza innovativa di sanità territoriale e collegiale - protagonisti sono Ospedale, Azienda Usl, medici di famiglia - unica in Italia: il «modello Parma», che nel 2019 ha dimostrato di funzionare con gli anziani nell'era pre-Covid e che resiste e dà frutti fondamentali, oggi nella pandemia.
Può spiegare come è nata questa esperienza?
Parliamo di un progetto voluto dalle due aziende sanitarie che all'inizio, prima del Covid, si rivolgeva solo a pazienti fragili e anziani. Il problema era evitare a questi pazienti ore in attesa nel Pronto soccorso sovraffollato. Ben lo spiega Antonio Nouvenne, che èil responsabile del progetto, in uno studio uscito sul British Medical Journal di cui è la prima firma. ln via sperimentale, alla fine del 2018, si è pensato di portare un pezzo di ospedale all'esterno. Abbiamo cominciato con una casa protetta di Parma e una di Langhirano: circa 200 persone più qualche paziente a domicilio tra i dimessi dal nostro Padiglione. Lo staff era composto da specialisti di medicina interna, geriatria, gastroenterologia, scienza dell'alimentazione. Oggi, con il Covid, si sono aggiunti radiologi e infettivologi.
Può dare qualche numero per capire la portata del progetto?
Oltre 600 accessi e 1500 procedure diagnostiche nel 2019. Numeri analoghi nel 2020, ma in più ci sono circa 2000 prestazioni Covid.
Ci sono altre esperienze di questo tipo nel nostro Paese?
È la prima sui malati fragili e gli anziani. Nel 2020 è stata applicata anche ai pazienti della pandemia. Dopo una sosta di due mesi, abbiamo ricominciato il 3 aprile 2020 con un'attività Covid, andando in 75 case protette per bonificarle, visitare pazienti, fare l'emogas analisi e l'ecografia del torace. Poi, quando la curva epidemica è calata, abbiamo ricominciato anche con l'attività non covid.
Cosa deve fare il cittadino per attivare l'Unità mobile?
È fondamentale il ruolo del medico curante: a lui spetta la chiamata, noi usciamo su sua segnalazione. Abbiamo trovato un'ottima collaborazione.
Come sono strutturate le prestazioni?
Inizialmente c'è un consulto tra colleghi al telefono, poi si decide cosa fare per quel paziente. Si inizia con la visita a domicilio e con una serie di prestazioni tecniche tipo ecografia, emogasanalisii, a volte la spirometria, dipende dall'esigenza specifica, e il paziente viene trattato dal punto di vista terapeutico. Inizialmente siamo partiti con un'attrezzatura ridotta, adesso disponiamo di ecografo, emogasanalizzatore, spirometro, possiamo eseguire alcuni esami ematici di base e fare il trattamento tipo flebo, infondere farmaci.
Quali sono i vantaggi di questa medicina a metà tra territorio e ospedale?
Molti. Intanto è una prestazione qualificata che dà molta soddisfazione al paziente, che non si sposta da casa e riceve le cure al suo capezzale. Inoltre non si mette sotto pressione il pronto soccorso: dopo la visita a domicilio, si si decide se continuare così oppure se occorre il ricovero. In questo caso si accede direttamente al reparto. In sostanza, si bypassa il filtro del pronto soccorso. Questa è una cosa importante, quello che secondo noi mancava.
Crede che le UMM abbiano avuto un peso nel buon funzionamento della Sanità emiliana rispetto a quella di altre regioni vicine?
Abbiamo sfruttato questo modello soprattutto nella seconda ondata, quando gli ospedali sono tornati sotto pressione. E' chiaro che questa collaborazione tra ospedale e territorio ha avuto sicuramente un effetto positivo, allentando la pressione sull'Ospedale, che non si è visto in altre regioni.
Quali sono le patologie non Covid trattate più frequentemente?
Molto varie, dalle infezioni delle vie urinarie, alle coliche renali, coliche biliari, broncopatie, polmoniti non covid, trombosi venose profonde, scompensi cardiaci in fase iniziate, disidratazione.
Parliamo dei costi.
All'inizio direi quasi a costo zero. Noleggio macchina, ecografo, non sono costi proibitivi. Adesso abbiamo dispositivi tecnici più complessi, ma il personale continua a essere quello del reparto, la coperta è questa. Poi vanno calcolati i risparmi delle eventuali ospedalizzazioni inutili e i disagi evitati al paziente. Ma diciamo che, al di là dei costi, c'è tutta una serie di benefici verso cui una medicina agile, moderna, attenta ai bisogni dei pazienti si deve spostare. L'ospedale diventa sempre più il punto di riferimento per casi complessi oppure che necessitano di un monitoraggio sia medico che infermieristico h 24.
Non c'è il rischio che il malato, soprattutto l'anziano, si senta abbandonato?
Direi che accade il contrario: il malato è al centro. Abbiamo sempre cercato soluzioni innovative che venissero soprattutto incontro alle esigenze dei pazienti. E' chiaro che spostare una persona fragile è complesso e l'ospedale non è un posto per anziani e malati fragili, perché si disorientano e possono andare incontro a episodi di delirium. Inoltre resta il fatto che noi siamo a disposizione, lasciamo i recapiti telefonici, controlliamo insieme l'evolversi della situazione. Lo facciamo per pazienti anziani, ma anche più giovani qualora il medico ce lo richieda. Si crea un rapporto umano intimo e gratificante sia per il medico che per il malato.
Può essere un modello di sanità per i prossimi anni?
Sì. Credo che sia un'esperienza pilota che ci traghetterà verso il futuro.
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