È un giorno di tiepido sole sul lungomare di Cesenatico, un tardo pomeriggio di vento che tira da est, in direzione del porto canale. Ci sono poche nuvole nel cielo e il volo lungo di qualche gabbiano accarezza l’acqua, la veloce schiuma delle onde appena increspate e la quiete lontana della battigia deserta. Questo vedono i suoi occhi, tra tutto quello che c’è da vedere lì attorno.
È seduto su una panchina di pietra grigia: le ha fatte sistemare il comune qualche anno fa, quando la giunta ha deciso di abbellire la passeggiata che accompagna la spiaggia in quel tratto di costa delle vacanze, degli stabilimenti balneari e del vociare fastidioso dei turisti. In estate non ci si può stare, troppa gente, il valzer delle famiglie con enormi borse di inutilità nel rito imbecille della corsa all’abbronzatura di serie. Il mare è bello solo nel silenzio dei pensieri e oggi, a lui, parla il silenzio.
Oggi compie settantotto anni e si sente un buco allo stomaco che non gli dà pace. Cristo, settantotto anni volati via, bruciati, schizzati, persi, lasciati al tempo che glieli ha fottuti tutti. Vive da solo, non ha figli e non ha fratelli.
Gli rimangono due occhi ancora buoni, qualche pensiero lucido e la compagnia di tre amici con cui passare i pomeriggi alle bocce. Gli rimane la luce di quel mare, l’aria calda che sente quasi arrivare, il colore dell’orizzonte all’imbrunire, e gli rimane una casa da pulire, una cucina per spadellarci qualcosa di commestibile la sera e qualche film che lo tiene sveglio fino a notte inoltrata. Dormire molto non ha senso, si dice, ci sarà tempo più in là quando raggiungerà la terra scura che sua madre gli sta conservando accanto a sé. Questo è lo scarno riassunto della sua vita, quello che gli viene appiccicato agli occhiali come torta di compleanno, in forma di candelina.
Per ricordarle meglio, le parole, se le sussurra a labbra strette, le ripete a bassa voce; parla da solo come i matti. Lo fanno incazzare le feste comandate: natali, pasque e compleanni, giorni della malora, date che ricordano più ferocemente che il tempo corre e che la sua ora si avvicina.
Non è la solitudine, quella non c’entra. È ancora su quella panchina, guarda sempre il mare. Guarda un mercantile lontano, sfuocato, sulla corda di un orizzonte che non è mai riuscito a superare, nemmeno con la fantasia. Guarda un peschereccio che sta facendo ritorno e crede di individuare i tre uomini a bordo. Uno lo conosce da quando era ragazzo, pensa. Immagina anche il casale in campagna dove andava da bambino a casa degli zii, quel pugno di muri arroccati sulla collina, tra gli ulivi quasi a strapiombo, in mezza costa, come fosse lì, ora, appoggiato sull’acqua. In fin dei conti, lui è sempre rimasto fermo, con i suoi pensieri in mano. Non è mai andato via dai suoi ricordi. E i ricordi sono rimasti gli stessi, non cambiano mai.
Qualche notte sogna il suo primo amore, l’unico che ha avuto. Quella ragazza sottile, dalla pelle olivastra, le gambe magre e fini, i capelli neri, neri e il profumo di onde. La sogna che dorme nel letto di fianco a lui.
Sta appoggiata sul lato destro e gli dà la schiena, lui le accarezza i fianchi; sogna di abbracciarla, di stringerla a sé. È solo un sogno nel silenzio completo, inespressivo, sordo, oppure è una realtà non vissuta, lui non lo capisce e non vuole saperlo. La mattina è come se avesse davvero dormito con lei, tornata per qualche ora a smentire il suo tempo, a capovolgerlo. Questo gli basta per stare male tutta la giornata e per non volere niente.
Si alza da quella panchina, gli si sono atrofizzate le gambe, va a fare due passi verso il centro, si ferma dopo i bagni Milano e se ci sono i suoi amici fa un giro alle bocce. Deve anche fare la spesa, gli manca il latte, il formaggio, l’insalata e il filo interdentale perché, come è contento, i denti ce li ha buoni. Se Dio vuole il dentista, dieci anni fa, gli ha fatto un lavoro con i fiocchi, sedicimila euro ma sono stati i soldi spesi meglio, quasi gioisce a ricordarlo adesso. Che almeno gli resti da gustare il cibo, masticando bene.
Mario ha due anni in meno e non ne vuole sapere, resiste con la dentiera della mutua che gli si scolla ogni due minuti. Qualche volta, quando si incazza per un punto sul pallaio e bestemmia, gli vola per terra. Eccolo lì, con la sua bicicletta da donna arrugginita, le scarpe da ginnastica del mercato e i pantaloni con la piega di un vecchio abito che ha sicuramente ereditato da qualcuno che è morto, i romagnoli non buttano niente.
Lo vede, saluta con la mano, sta aprendo l’armadietto delle bocce, lui è sempre il primo ad arrivare.
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