×
×
☰ MENU

PARMA DI una volta

Il mare portato nel carretto: quando arrivavano gli acciugai

Erano montanari del Cuneese

Il mare portato nel carretto: acciugai in arrivo

di Lorenzo Sartorio

23 Gennaio 2023, 15:21

Nella puntata di «Melaverde» (che va in onda la domenica mattina su Canale 5 Mediaset) dell’ottobre scorso, un oste cuneese, cultore delle tradizioni della propria terra, nell’illustrare la ricetta della «bagna cauda» (piatto a base essenzialmente di aglio e acciughe) ha precisato che, negli anni cinquanta-sessanta, i primi acciugai piemontesi che, con il loro carrettino partivano appunto dal Piemonte ed in modo particolare dalla provincia di Cuneo per raggiungere la Val Padana e quindi l’Emilia, la prima città in cui facevano tappa era proprio Parma. La stessa cosa avveniva per i venditori di lavanda, montanari della Val di Vara, Val d’Aveto, del Col di Nava, delle Langhe e del Monferrato, i quali si posizionavano di solito in Strada Farini muniti di zaini e borsoni che, come venivano aperti, sprigionavano un profumo inebriante. Con che mezzo e come facessero ad arrivare dalle nostre parti è un mistero, fatto sta che con l’inizio dell’autunno e fino al tempo di Natale, una volta ogni quindici giorni, gli ambulanti di acciughe facevano la loro comparsa nei borghi dell’Oltretorrente e della Parma antica, ossia in quella fetta di città all’ombra dei campanili di San Giovanni e del Duomo. Lo ricordava con un pizzico di nostalgia mista a «magón» Umberto Vicini, parmigiano del sasso, fratello dell’indimenticato Luigi, il cantore dei più sublimi sentimenti «de d’la da l’acua».

Umberto, rammentava che, quando incominciavano ad apparire negli angoli dei borghi i baracchini di castagne con il loro inconfondibile profumo e le stradicciole erano immerse nei fiati torbidi di nebbia, facevano la loro apparizione gli acciugai «che - ricordava Vicini - indossavano una sorta di uniforme, ossia calzoni di fustagno e giacconi di velluto». Erano montanari piemontesi che scendevano dal cuneese, in particolare dalla Val Maira (valle che collega la Francia alla Pianura Padana) e percorrevano le città emiliane trainando i loro carrettini sui quali erano sistemati bariletti di acciughe, alici e sardine. La Val Maira, nonostante gli oltre cento chilometri che la separano dal mare, è stata il crocevia del nord Italia nel commercio di acciughe. Costretti dalla miseria, da settembre a maggio, durante il periodo dell’anno in cui le temperature rigide rendevano meno fertile il terreno e più arduo il lavoro nella campagne, molti contadini scelsero di abbandonare i campi e dirigersi verso il mare in cerca di lavoro.

Nei porti di Genova, Savona e Nizza cominciarono ad acquistare le acciughe, provenienti generalmente da Sicilia, Algeria, Portogallo e Spagna, le caricavano su carretti in frassino, le coprivano di sale e si incamminavano alla ricerca di clienti in tutto il Nord Italia. La Val Maira fu dunque denominata la «terra degli acciugai», una strana commistione se si pensa che un pesce di mare potesse giungere dalla montagna. Ma una spiegazione c’è. I montanari della Val Maira scendevano in Liguria e barattavano la canapa con le acciughe che, in seguito, impararono a conservare sotto

sale custodendole per una buona «stagionatura» nelle loro cantine dove erano stati messi a dimora anche i formaggi e i salumi. Quando le acciughe, a parere dei loro stagionatori, erano pronte per la vendita iniziava per questi montanari il lungo viaggio che li portava dalle nostre parti. Era un lavoro duro, il mestiere dell’acciugaio, poiché significava dire camminare, rifocillarsi con le acciughe del proprio carretto e la sera chiedere, sempre in cambio di acciughe, ospitalità e un bicchiere di vino rosso che potesse placare la sete per il troppo sale ingerito.

Al robusto grido «anciueeee» che echeggiava nei borghi, i montanari, erano in un baleno circondati dalle massaie che scendevano in strada per acquistare quei pesci conservati sotto sale i quali, dopo essere stati pesati in quelle bilance portatili che i montanari tenevano appoggiate sulle spalle, venivano avvolti in fogli di giornale che grondavano sale ed emanavano, dopo poco, profumo di mare.

«Erano tempi in cui andava male - rammentava Vicini - quindi le acciughe rappresentavano un ottimo companatico e poi le rezdóre sapevano farle rendere cucinandole fritte, con la polenta, con le patate, oppure crude con un filo d’olio, una spruzzata di limone accompagnate da tanto pane».

Con acciughe, capperi e uova sode, le «rezdóre», usavano irrobustire la loro «salsén'na vérda» da lesso a base di prezzemolo per renderla ancor più gagliarda e saporita. Gli acciugai, gente di poche parole, riuscivano ben presto a vendere tutta la loro merce in quanto era ambitissima e, come il baccalà, a prezzi più bassi rispetto a carni e salumi.

L’antesignano della conservazione delle acciughe sotto sale, secondo la leggenda, sembra essere stato un contrabbandiere piemontese il quale, per evitare le pesantissime gabelle sul sale, aveva studiato lo stratagemma di coprire i barili con uno spesso strato di acciughe in modo tale che i gabellieri, quando ispezionavano i barili, non si accorgessero della presenza della preziosa merce. I montanari piemontesi, che nella nostra città facevano affari d’oro, ben presto si accorsero che le acciughe conservate sotto sale erano un business. Ma per quale motivo i valligiani della Val Maira furono così affascinati dalle acciughe? Lo storico - scrittore Angelo Tondini con una bella descrizione, impastata di romanticismo, fornisce una risposta a questo interrogativo.

«Chi vive nell’immobile fissità delle colline sogna l’infinita mobilità delle onde, l’orizzonte aperto e libero del mare. Lì vive l’acciuga, in grandi branchi color verde- argento, per mimetizzarsi e sfuggire ai predatori, imitando il colore dell’acqua e lo scintillìo della luce del sole. Il suo nemico è l’uomo che da secoli la insegue con le reti volanti, la cattura e la vende affinché venga consumata fresca, cruda con olio e limone, fritta o con le patate, o perchè venga salata e conservata, magari sott’olio. E’ un pesca antica, secolare».

Una pesca che, grazie ai taciturni montanari piemontesi, tempo fa, riuscì ad affascinare anche i parmigiani. Tra le acciughe le la nostra città, comunque, c’è stato sempre stato un feeling, non solo attestato dalle tradizioni popolari, ma anche nobilitato dalla sempre vivace imprenditoria parmigiana. Infatti, a Parma, è dal lontano 1892 che ha sede una delle più importanti ed apprezzate aziende nel ramo della conservazione ittica: la Rizzoli Emanuelli un tempo con sede storica in via Emilia Est. Alla Rizzoli, negli anni, si aggiunsero altre primarie aziende parmigiane sempre nel ramo della conservazione ittica. Per dire come le acciughe, ormai da tanti anni, «i pärlon al djalètt pramzàn».

© Riproduzione riservata

CRONACA DI PARMA

GUSTO

GOSSIP

ANIMALI