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La stadera, umile regina dei mercati

La stadera, umile regina dei mercati

di Lorenzo Sartorio

15 Luglio 2024, 16:08

La stadera ossia la bilancia era lo strumento indispensabile per gli ambulanti d’un tempo che lo tenevano solitamente appoggiato ad una spalla, come i medici usano fare con il fonendoscopio. E così, come gli ortolani, anche i pescivendoli, i «polaról», gli «strasär» ed altri commercianti di strada usavano questo antico «ferro del loro mestiere».
Già, la bilancia, che si può fregiare di un’antichissima storia tant’è che le bilance più antiche, risalenti al 5000 a.C., furono ritrovate in Egitto. Presso gli egizi la bilancia acquisì un importante valore religioso-simbolico infatti, Anubi, il dio egizio dei morti, decideva l'ingresso dei defunti nell'oltretomba pesando su un piatto la loro anima e sull'altro una piuma. Ma, senza andare troppo lontano nel tempo ma, soprattutto, senza scomodare gli dei, parliamo ora di coloro che, in un recente passato, la «stadéra», la manovravano con estrema destrezza: i commercianti onesti registrando il giusto peso, al contrario di quelli un po' birichini che, usando maldestramente le dita, il peso della merce lo alteravano ovviamente a loro vantaggio.
Se la «rezdóra» se ne accorgeva erano però guai seri e, nei borghi «dedlà da l’àcua», ci poteva scoppiare anche «'na béla bùjja». «Sach a la strasära, dònni» era il richiamo degli straccivendoli.
La voce era roca, ma allo tesso tempo potente e feroce e la si udiva di lontano quando, a volte al mattino, ma più spesso al pomeriggio sul far della sera, la «strasära», transitava in viale delle Rimembranze in sella al suo trabiccolo a pedali sul quale trovava posto ogni genere di roba. Proprio di tutto: dagli stracci, ai ferri vecchi, bottiglie, rottami, piatti rotti, «preti» da letto sgangherati, seggiole spagliate, coperte lacere.
La vecchia, a metà strada tra una fattucchiera ed una strega, spettinata, sdentata, con una vestaglia nera che, dall’usura e dalla polvere era diventata lucida, invitava «al dònni» a portare in strada quelle cianfrusaglie che avrebbero dato loro noia sia in casa che in cantina o nel «granär». Quando le «rezdore» udivano il suo lancinante messaggio scendevano in strada con certi attrezzi da film dell’orrore, ma, se la roba era di qualche pregio, come ad esempio rame o altro vil metallo, la «strasära» estraeva la sua «stadéra», la pesava, quindi si accaparrava la merce per poche lire, oppure dava in cambio alcune scatole di fiammiferi. Le più pittoresche «pesate» di polli, conigli e anitre le si potevano osservare in Ghiaia o nei mercati dei paesi.
A seconda della stagione, «al polaról», proponeva il meglio della sua produzione. Infatti in estate consigliava alle sue clienti possenti «nadòr mut» provenienti dai canali della bassa, che, specie nelle giornate di ferragosto, le cuoche parmigiane cucinavano arrosto.
Come pure i conigli nostrani che finivano in padella o in cacciatora con i pomodori e i peperoni dell’orto. Sempre in estate, qualche pollivendolo, teneva anche le rane che i «ranär» del contado gli portavano nel periodo del raccolto poiché, era proprio quella, la stagione più propizia per gustare le rane fritte.
Gli ortolani ambulanti del terzo millennio dispongono di attrezzati automezzi, una sorta di negozi mobili forniti di tutto con tanto di bilance elettroniche, illuminazione interna, frigo e altri comfort.
Ma un tempo i «frutaról ambulànt», quelli, tanto per intenderci, che calcavano le strade, i borghi e la prima periferia, erano muniti di carretti di legno con ruote larghe a raggi che trainavano a mano. E, su quei carretti, le stagioni sfilavano sotto forma di frutta e verdura.
Gli ortolani «ruspanti» d’ una volta, infatti, non vendevano primizie, frutti esotici e nemmeno si rifornivano da serre speciali perché, serre dotate di sofisticate apparecchiature tali far crescere le fragole in dicembre e le ciliege a gennaio, non ne esistevano proprio e, nemmeno, era di moda importare frutta da tutte le parti del mondo.
La meravigliosa frutta italiana bastava e avanzava. L’hit parade della verdura iniziava in primavera con i primi piselli degli orti, cipollotti, insalata tenerissima, ravanelli, zucchini e le nespole. Poi, in estate, non c’era che l’imbarazzo della scelta ma, fra tutti gli ortaggi, spiccavano i freschissimi fiori di zucca ancora madidi di rugiada, fagiolini, pomodori da insalata e da conserva, peperoni e melanzane.
Mentre i padanissimi frutti più comuni nei mesi caldi erano le angurie e i meloni. Poi in autunno i carretti erano traboccanti di uve bianche e rosse, mentre in inverno apparivano castagne, rape, cavoli e verze bianche come la porcellana.
Verdure antiche ! Gli ortolani ambulanti giravano strade e borghi, ma avevano una postazione fissa dove attendevano i clienti abituali. Ad esempio, in strada XXII Luglio, all’angolo con borgo Riccio, si posizionava un ortolano corpulento, simpatico, «pramzàn dal sas», il quale con la «stadera» sulle spalle, era attorniato da un gineceo di clienti che lo assediavano di domande sulla qualità della sua merce.
E la riposta era sempre la stessa: «i pèrsogh j' én gustóz cme 'l ragasi äd vint’an'», «i cornètt j' én tènnor cme 'l butér», «I partugàj? Un sùccor».
E così via a magnificare la merce che il buon ortolano decantava in perfetto dialetto parmigiano senza italianizzare proprio nulla. Ed allora il prezzemolo era «bonjèrba», le albicocche «muliäghi», le bietole «bedrävi», gli aranci «partugàj», le patate «pòmm da téra», il pisello «revjòt» e così via.
Un inno vegetale alla parmigianità. Svelto come un pesce, nonostante avesse una bella pancia prominente, cappello in testa, in inverno di feltro e in estate di paglia, l’ortolano pesava velocissimo la merce facendola scivolare nelle borse delle donne.
Nelle chilometriche tasche dei pantaloni pescava i resti e poi ancora a pesare e a decantare la sua mercanzia offrendo alle signore più avvenenti un frutto, magari il più bello, per assaggio.
Altri ortolani, invece, giravano in periferia sempre con il loro carretto. Erano gli anni Sessanta, il tempo dell’immigrazione dal sud e famiglie di napoletani e pugliesi, una volta raggiunta la nostra città, con sacrifici, si compravano un carretto.
L’occhio per acquistare la verdura più bella lo avevano e quindi, nel giro di poco tempo, riuscirono a farsi una buona clientela anche in quartieri « altolocati» come il «Cittadella» che percorrevano in lungo e in largo sia in estate che in inverno fino a sera inoltrata azionando una lanterna per illuminare la merce. Il carretto degli ortolani d’ un tempo prevedeva pure un cassetto nella parte inferiore dove alcuni di loro tenevano le noccioline americane («zgagnaràbia») o i semi di zucca abbrustoliti e salati («brostolén’ni») che distribuivano a quei ragazzini che si offrivano di portare a casa della gente la frutta e la verdura.
Anche le «rezdóre» anziane attendevano con trepidazione il loro ortolano il quale si faceva annunciare urlando a squarciagola la qualità e il prezzo della merce. L’anziana, non appena l’ortolano si posizionava sotto le sue finestre, calava un cestino di vimini con una corda. Indicava dall’alto la frutta o la verdura che desiderava che risaliva ballonzolando nel vuoto.
Il cestino, una volta che la «rezdóra» aveva ispezionato bene la spesa, ritornava a terra con i pochi spiccioli che l’ortolano infilava in quelle tasche enormi.
Per Natale, un tocco di raffinatezza e di superstizione era dato da quei mazzi di vischio verde che abbracciavano la frutta e la verdura quasi per tenerle al caldo.
E ad ogni cliente, oltre i tradizionali auguri e una robusta stretta di
mano, l’ortolano porgeva un
rametto di vischio che svettava dall’autarchica borsa della spesa che profumava degli «odór»: sedano, carota, prezzemolo e cipolla («sènnor, caròtla, bonjèrba, sigòlla») ingredienti indispensabili per insaporire il sacro brodo di Natale: «còll ädj anolén».

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