Storie dei «nostri» girovaghi
Iprocessi migratori cui hanno dato vita le genti delle valli del Taro e del Ceno sono un unicum; per durata, vastità, modalità, non hanno paragoni. Già nel XIII-XIV secolo i Lusardi, della val Taro, e i Granelli, della val Ceno, erano fortemente radicati in Liguria e a Genova, dove giunsero ad assumere ruoli di primo piano.
Con una grida del 7 luglio 1596, Federico Landi ordinava la notifica di tutti i terreni abbandonati dai proprietari che andavano «in altre parti, lasciando derelitti i luoghi [...] con grandissimo pregiuditio dell’Illustrissima Sua Camera»; l’emigrazione doveva essere notevole, se preoccupava il potere locale che, nel 1599, promulgava uno statuto in cui si proibiva di andare ad abitare all’estero, senza il permesso del Principe, pena la confisca dei beni.
Pochi anni dopo, nel 1617, nel Libro della descritione in rame degli Stati e Feudi Imperiali del Principe, compariva, nella veduta di Casale, villaggio posto al confine con la Liguria, con grande evidenza, un tendone che, oggi, definiremmo “da circo”; che cosa ci faceva? La risposta si ha da documenti settecenteschi; nel giugno 1767, Antonio Maria Chiesa, di Tarsogno, villaggio prossimo a Casale, arrivò a Turku, in Finlandia, portandosi dietro un cammello, un orso, due istrici africane, due asini e quattro scimmie. Le cronache sottolineavano che: «Per la gente di qui c’era di che far le meraviglie» e che: «L’ottenimento della licenza di spettacolo per otto giorni prevedeva il pagamento di 500 talleri d’argento per i poveri e di altrettanti per l’ospedale. Il Chiesa pagò coscienziosamente quanto da lui dovuto». Doveva aver avuto una confortevole entrata.
Non era il solo valtarese che praticava quel tipo di girovaghismo; il 25 marzo 1781, le autorità ducali rilasciavano il passaporto a «Paolo Rossi e Compagni della Pieve di Bedonia, i quali si trasferiscono nella Francia, nella Spagna, nella Germania ed in altre Parti con un Camelo, ed altri animali selvatici per procacciarsi il vitto»; il successivo 30 novembre, il passaporto era rilasciato a Vincenzo Truffelli, di Casale, e Marco Biasotti «i quali si trasferiscono nella Germania, per procacciarsi il vitto con un Camelo, ed altri Animali Selvatici».
Come si vede, i cammelli erano di casa in alta val Taro, e non potevano certo essere alloggiati nelle minuscole stalle locali: servivano, per ricoverarli, appositi tendoni.
Degli ultimi decenni del Settecento sono rimaste numerose decine di tali passaporti, indice di una attività radicata e ormai diffusa.
Il primo, del 28 settembre 1763, era stato rilasciato a Lazaro e Giovanni Rivalta e a Giacomo Brizzolara, tutti della Giurisdizione di Compiano «li quali, con un Orso, ed una Scimia si trasferiscono in Germania».
Cammelli e scimmie non erano, ovviamente, animali di facile approvvigionamento, ma, in val Taro, sapevano procurarseli; questi montanari erano analfabeti, parlavano solo il loro oscuro dialetto, non avevano atlanti o carte geografiche, si muovevano a piedi, con le loro bestie e i loro carri, ma sapevano superare le Alpi, affrontare problemi di lingue, monete, polizie, climi, salute, viaggiando per anni, contando sempre e soltanto su se stessi.
Né quella di «mostrare bestie selvagge» era la sola forma di girovaghismo; un’altra era quella dei venditori ambulanti.
Il 13 settembre 1777 fu rilasciato un passaporto ai fratelli Tommaso e Giovanni Berardi, della Giurisdizione di Compiano, «i quali vendendo inchiostro, e facendo giuocare picciole marionette, vanno in Francia, ed in altre parti per procacciarsi il Vitto».
A volte, i passaporti venivano rilasciati all’estero; così, uno fu concesso, a Parigi, il 27 febbraio 1783 a «Giuseppe Leonardi venditore d’inchiostro e di piccola merceria, di trentadue anni di età, nativo del Regno di Parma […] che va in Normandia per vendere e smerciare le sue mercanzie»; un altro fu assegnato, il 19 giugno 1786, a Saint-Quentin, a Giovanni Sidoli [Jean Sidoulie] «Piacentino, merciaio, d’inchiostro, di aghi, nativo di Parma in Italia, di trentotto anni di età» il quale aveva dichiarato di andare «nelle Fiandre e altre province del Regno».
Come si vede, tutti e tre erano «venditori di inchiostro», una merce che autoproducevano utilizzando l’acqua piovana e portando con sé acido tannico, estratto dalle galle di quercia o di castagno, vetriolo verde e gli altri ingredienti necessari; un’altra «specializzazione» dei nostri girovaghi che la smerciavano andando a piedi, con il loro barile sulle spalle, fino al mare del Nord.
Si emigrava, però, anche con altre forme di commercio ambulante, come suonatori di strada, come giornalieri di campagna, con l’accattonaggio…, ma torniamo a coloro che giravano l’Europa con le bestie selvatiche per conoscere meglio alcuni dei loro percorsi.
Bartolomeo ed Antonio Bertani ebbero il passaporto «per andare e ritornare», rilasciato a Parma, il 21 agosto 1788; «con altri compagni vanno in Francia ed in altre Parti del Mondo per far vedere animali selvatici». Il 2 novembre, dopo aver valicato le Alpi, erano a Gap; nel visto segnato sul passaporto, si legge: «attendu que les denominés n’ont ni ours, ni tigres, ni autres animaux feroces, permis de donner au public l’exercice de leurs singes, chiens et porc epins [istrici] pendant trois jours»; un cast zoologico piuttosto modesto, ma che non impedì ai Bertani e ai loro compagni di percorrere larghi spazi della Francia centrale e ciò nonostante la stagione invernale e nonostante che i tempi, mentre stava iniziando a ribollire la rivoluzione, non fossero affatto tranquilli.
Le annotazioni segnate sul passaporto consentono di seguire i loro spostamenti per circa sette mesi; si diressero dapprima a Nord, giungendo a Grenoble il 1° gennaio, per poi scendere lungo la valle dell’Isère fino a Valenza, dove giunsero il 23 del mese; tornarono verso Nord, lungo la valle del Rodano, fino a Lione, dove passarono il 12 febbraio, per voltare poi ad Occidente fino a giungere a Felletin, piccolo comune rurale, nel cuore della Francia, oggi nel Parco naturale regionale di Millevaches in Limousin, il 16 aprile; qui invertirono la marcia, dirigendosi a Sud-Est per giungere ad Annonay il 25 maggio; il percorso è schematicamente riportato nel grafico (base cartografica da Google).
Un documento eccezionale è costituito dal «Libro dei permessi» di Giuseppe Dallara; vi ha raccolto, sia pure con ampie lacune, le autorizzazioni apposte dalle autorità delle località da lui frequentate nell’arco di oltre un ventennio, dal 14 maggio del 1847 al 31 gennaio 1868.
Le località che vi sono elencate sono oltre 300, alcune toccate più volte; la località più a Nord è Schärdings, borgo sulla sponda del fiume Inn, nel tratto in cui segna il confine tra Austria e Germania; la più orientale, Sebeş, un municipio della Romania, in Transilvania, allora parte dell’Impero austriaco; la più meridionale, Costantina, nell’Algeria orientale, 430 km a Est di Algeri, a circa 80 km dal mare; la più occidentale, Siviglia.
Il 30 luglio 1847, quando si trovava già nel Regno di Napoli da un paio di mesi, il Governo rilasciò a lui e al fratello Giovanni il permesso «di dare, per un anno, sì in Napoli che nelle provincie del Regno degli spettacoli di giochi di destrezza, di balli sulla corda e di animali ammaestrati».
Durante quel viaggio, trascorse molto tempo fra i monti dell’Abruzzo, giungendo in località come Palena, ove attualmente ha sede il museo dell’orso marsicano, o Capracotta, a 1400 mslm; ci si può chiedere se vi era andato per «mostrare» un orso o per acquistarne uno (o più).
Il suo «serraglio» mutava, infatti, nel corso delle sue peregrinazioni: il 9 ottobre 1851, di rientro dall’Austria, a Trieste, nel domandare il permesso precisava: «Le mie belve consistono in 2 orsi bene ammaestrati, varie specie di scimie pure ammaestrate, e 2 cavalli, un istrice, un capricorno, tutti maestrati»
Il 1° aprile 1852 era a Barcellona, rimanendo quattro mesi in quei dintorni; nella domanda di permesso aveva elencato le sue bestie: due scimmie, due orsi, una capra, un istrice e un cavallo.
Il 23 aprile dell’anno successivo (1853) era a Granada dove dichiarava di avere un orso, un grifone (buitre), un istrice, dieci scimmie. In luglio, a Siviglia, elencava una pony (yegua pequeña), un orso (oro), varie scimmie (varios monos), un istrice (puerco espin), un grifone e uno stambecco iberico (cabra montesa) «animales todos domesticados»: era in Spagna da 16 mesi.
Il 22 settembre 1854 si trovava, invece, a Ravenna, dove ebbe il permesso per esercitare «vari trattenimenti con animali volatili e quadrupedi»; trascorse, poi, due anni nell’Impero austriaco, in Transilvania e in Ungheria.
All’inizio di luglio 1857, a Treviso, ricevette l’autorizzazione a «girare per Venezia» per quattro giorni «soltanto col suo organo» «esclusa la Piazza San Marco»; non gli era consentito di «percorrere le vie coll’orso e la scimia»; avrebbe, però, potuto «esporre alla vista del pubblico gli animali suddetti in apposito locale chiuso».
Per tutto il 1858 rimase in Toscana; in giugno, a Firenze, disponeva di «due orsi, cinque scimmie, un dromedario, un istrice e altri animali ammaestrati».
A fine gennaio 1859 passò in Sardegna e la percorse fino ad aprile, quando si imbarcò per l’Algeria, dove rimase fino all’inizio del 1860; a metà aprile si imbarcò per la Spagna. Alla fine di maggio era di ritorno a Savona; tra gli animali di cui era conduttore, figuravano una pantera ed una iena; nella seconda metà dell’anno entrò in Lunigiana fino a Pontremoli, poi ritornò in Toscana, dove rimase fino all’aprile del 1861.
Nel febbraio 1862, sua moglie, Caterina Angelotti, ebbe, a Firenze, il permesso «di suonare un organetto all'interno di questa città e del quartiere di Santa Croce». Trascorse due anni nell’Italia Centro-Settentrionale per poi imbarcarsi, l’8 aprile 1865, a Piombino, per l’isola d’Elba da cui, in giugno, ripassò in Corsica, dove, il 23, era nello storico centro di Corte; nell’ottobre si imbarcò per Mentone per rientrare poi in Italia; il permesso che gli fu rilasciato, è l’ultimo in cui si parla di «bestie feroci». Il 19 dicembre, a Sampierdarena, il permesso diceva: «Si permette al Dallara di suonare il suo organo per questa città oggi e domani». Nelle ultime pagine del Registro, vi sono alcuni permessi datati dicembre 1867 e gennaio 1868, da Savona a Sanremo fino al Principato di Monaco. Anche qui la sua professione, ormai in declino, veniva indicata come «suonatore d’organo».
Antonio Bernabò, è stato, forse, il più celebre girovago bedoniese. Un suo carnet di viaggio contiene più di 2700 registrazioni; la prima apposta l’11 maggio 1885 a Kehdingen, a Nord-Ovest di Amburgo; l’ultima, il 6 marzo 1901, a Bertelsdorf, nel Kreis Lauban, provincia prussiana della Slesia, oggi Uniegoszcz, nel Sud della Polonia; entrambi quei territori facevano allora parte della Prussia, che si estendeva su gran parte dell’Europa Centro-Orientale.
Le registrazioni riguardano quasi esclusivamente villaggi di campagna, a volte piccolissimi, di poche decine di abitanti; anche quando si avvicinava alle città, Bernabò si fermava nei villaggi circostanti, oggi spesso inclusi negli agglomerati urbani.
I tempi delle registrazioni non sono continui, ma si suddividono in due blocchi e lasciano scoperti degli spazi intermedi, senza che si possa sapere se sono andate perdute le registrazioni o se Bernabò avesse temporaneamente interrotto le sue peregrinazioni.
Il primo blocco, che iniziava, come si è detto, l’11 maggio 1885, si svolse nella zona Nord-occidentale dell’Impero e si concludeva, dopo aver toccato 114 località, il successivo 16 dicembre, a Rosheim, nel Bezirk Unter-Elsass, oggi in Francia (vicino a Strasburgo).
Il secondo blocco, iniziava tre anni dopo, nel maggio del 1888, in Italia, a Castelfranco Veneto; il tragitto da questa località a Tarvisio, 192 km, percorsi in 15 giorni, è l’unico tratto italiano che si trovi nel carnet; la lunga interruzione e la ripartenza dall’Italia possono far pensare che in quella circostanza, Bernabò fosse ritornato nella natia Cavignaga.
Negli anni successivi, rimase sempre in Prussia; le registrazioni mostrano alcune lacune, talora di diversi mesi, ma riprendendo da località non lontane da quella in cui si interrompono.
Nel corso di quel 1894, tra fine maggio e metà novembre percorse un itinerario che lo portò a toccare ben sette degli attuali stati europei: Germania, Polonia, Ucraina, Romania, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e, di nuovo, Polonia.
Il visto che gli fu rilasciato a Goërlitz il 21 gennaio, contiene la sola indicazione sulla sua attività che sia stato possibile rintracciare nel carnet: «Approvato per i “tre” 22 23 […] 24 gennaio c., da mattina dalle 11 al pomeriggio 5 in punto, ad eccezione di quelle strade e luoghi in cui operano i tram trainati da cavalli, e con l'esclusione dei Wilhelmplatz, Dresdenerplatz, pure tutte le passeggiate e i sentieri per mostrare un cammello bianco e alcune scimmie e un pony».
Una foto sembra descrivere in modo appropriato, anche se parziale, la sua presenza: una piccola folla di bambini e di ragazzi ha gli occhi puntati sulla scimmia che, ben abbigliata, cavalca il pony, controllata, da vicino, da un guardiano munito di un lungo vincastro, mentre Antonio Bernabò, con la folta barba nera, osserva stando accanto al «carro delle scimmie», sul tetto del quale, legate da guinzagli, diverse di esse contemplano la scena.
La carovana di Bernabò doveva essere, tuttavia, composta anche da altri veicoli, così da consentire di poter vivere, per molti anni, in ogni stagione, continuando a viaggiare a lui, ai suoi collaboratori, agli animali.
In un’altra foto si vedono sette uomini, orsi, cavalli, scimmie, cammelli e carri, due carri uno dei quali reca le scritte «Bernabo aus Bedonia Italia» e «Affen Kasten» [carro delle scimmie].
La vita di Antonio Bernabò, nato a Cavignaga di Bedonia nel 1857, in gran parte trascorsa in giro per il mondo, ebbe aspetti romanzeschi, tramandati dalla memoria dei discendenti; divenne un vero e proprio imprenditore di spettacoli; con altri bedoniesi, creò il «Grand Cirque Zoologique de Variété Bernabo»; giunse ad esibirsi, a Costantinopoli, al cospetto del Sultano, che lo decorò con una medaglia. Lo scoppio della Grande Guerra lo sorprese mentre era, con il suo circo, nei Balcani, ponendo fine alla sua attività.
Se numerosi nostri villaggi potevano essere descritti con i termini usati, nel 1920, da Alfredo Panzini per Borgotaro: «triste, cadente, diroccato borgo»; se potevano apparire, come fu scritto vent’anni dopo, luoghi «ove l’isolamento ha agito quale mezzo pietrificante», essi custodivano e tramandavano, invece, da secoli, una straordinaria capacità «de anà pru mondu», di guadagnarsi da vivere percorrendo terre lontane e sconosciute, anche con la spavalderia di poter dire, come fece uno dei collaboratori di Antonio Bernabò, raccontando la loro esperienza: «neppure Sua Maestà ha visto ciò che abbiamo visto noi».
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