ECONOMIA
Tutte le previsioni macroeconomiche concordano su un fatto: l’Italia sta crescendo a un ritmo che le consentirà, fra questo 2021 e il 2022, di recuperare completamente il crollo subito nell’anno del lockdown. Nel 2020, infatti, il Pil è diminuito del 9,0% mentre in questo biennio - se prendiamo le recentissime previsioni della Commissione europea (novembre) - crescerà del 10,5%. Tutto risolto, dunque?
Cominciamo col dire che le Istituzioni nazionali e internazionali, nel pubblicare le loro stime, aggiungono una nota di cautela sull’evoluzione della pandemia. Come dimostra in questi giorni la variante Omicron, siamo in presenza di un virus che sa riprodursi in molte forme. La straordinaria campagna di vaccinazione di massa, la terza dose, il super green pass e, più in generale, la fiducia nelle virtù della scienza che accomuna la stragrande maggioranza degli italiani sono punti di forza importanti. Ma guai ad abbassare la guardia. In questo senso, le previsioni economiche sono, sì, tendenzialmente positive (l’incremento del 10,5% nel biennio 2021-2022 è superiore al 9,3% di incremento medio del Pil per l’Ue), ma sono soggette al vincolo di cui prima si diceva: una regolare uscita dalla pandemia.
La storia non finisce qui, giacché l’economia italiana negli ultimi due decenni ha mostrato un serio problema di crescita. Scrive il Presidente Mario Draghi nella sua Premessa al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr): «Tra il 1999 e il 2019, il Pil in Italia è cresciuto in totale del 7,9%. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna, l’aumento è stato rispettivamente del 30,2%, del 32,4% e del 43,6%” (pag. 2). Insomma, c’è un divario di crescita da colmare nei confronti degli altri paesi leader dell’Ue.
Il passo successivo è comprendere le ragioni di questo divario. La letteratura economica, nell’età dell’euro, si è fatta davvero sconfinata sull’argomento: sul banco degli imputati c’è, per giudizio condiviso, la produttività (il prodotto orario per lavoratore), che a sua volta molto ci dice sul ritmo del progresso tecnologico, sulla formazione delle risorse umane, sulla capacità di combinare tutti i fattori della produzione in modo nuovo. Certo, produttività è una parola dal suono poco elegante, ma che entra di diritto fra le cause fondamentali del benessere economico.
Sostiene sempre il Presidente Draghi: «Dal 1999 al 2019, il Pil per ora lavorata in Italia è cresciuto del 4,2%, mentre in Francia e in Germania è aumentato rispettivamente del 21,2% e del 21,3%» (p. 2).
Ricapitolando: ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi (la ripartenza dell’economia italiana) va visto con ragionevole ottimismo, senza tuttavia dare per sciolti - come per magia - i nodi di fondo del nostro sistema-Paese. Da dove ripartire? La storia economica italiana, anche quella recente, ci dà una risposta inequivocabile: dalla manifattura, attuando una Politica industriale moderna e focalizzata, in primis, sugli investimenti in conoscenza (R&S, capitale umano, ICT).
Il Centro Studi Confindustria (CsC) ha di recente pubblicato i suoi «Scenari Industriali» (novembre), annotando tra le altre cose: «Nel corso del 2021 la manifattura italiana ha recuperato stabilmente i livelli di attività precedenti lo scoppio della pandemia, diventando uno dei principali motori della crescita industriale nell’Eurozona». Dopo aver messo in rilievo, nella spiegazione di questa performance, la positiva dinamica della componente interna della domanda, il CsC annota: «Un ruolo fondamentale è rappresentato dal basso grado di esposizione delle imprese manifatturiere italiane alle strozzature che stanno affliggendo le catene globali del valore in questo frangente. Con riferimento all’inizio del terzo e quarto trimestre del 2021, “solo” il 15,4% di esse ha lamentato vincoli di offerta alla produzione per mancanza di materiali o insufficienza di impianti, contro una media Ue del 44,3% e a fronte addirittura del 78,1% dei rispondenti in Germania».
Ripartire dalla manifattura, dicevamo. E dal territorio, dove le nostre imprese (le grandi così come le Pmi) non vivono isolate, in una sorta di Deserto dei Tartari, bensì operano l’una vicina all’altra, dando vita a un equilibrato rapporto di cooperazione e, al tempo stesso, di competizione. Chi trova un amico, si sa, trova un tesoro.
Franco Mosconi
(*) Professore di Economia e politica industriale, Università di Parma
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