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La Federal Reserve mercoledì scorso ha deciso di tagliare il costo del denaro negli Stati Uniti di 25 punti base in una forchetta fra il 4% e il 4,25%. Al contempo ha rivisto al rialzo le stime di crescita del Pil per quest'anno all’1,6% rispetto all’1,4,% formulato a giugno con la stima per il 2026 che passa all1,8% (da 1,6,%). Tuttavia la Fed ha messo in guardia: permangono i rischi sul mercato del lavoro e le attese di inflazione sono stimate ancora alte al 3% (dal 2,7% di tre mesi fa). Cerchiamo allora di fare chiarezza.
Come si presenta l’attuale scenario economico e che cosa influenza le aspettative? Il primo fattore da tenere in considerazione è il fatto che il mercato del lavoro sta mostrando segni di rallentamento: nuove assunzioni inferiori al previsto, revisioni al ribasso sui dati passati, tasso di disoccupazione che si muove verso l’alto. Nuvole grigie all’orizzonte che non piacciono: nell’economia reale l’inflazione resta al di sopra del target del 2% della Fed, specialmente nella componente core, quella cioè che esclude i generi alimentari e l’energia. Ma perché escluderli? Negli Stati Uniti, secondo il Bureau of Labor Statistics, cibo ed energia rappresentano circa il 20-22% della spesa media familiare (il cibo intorno al 13-14%, l'energia tra il 7 e l’8%). A dominare il paniere della spesa resta invece la voce abitazione, con un peso superiore al 35%. In Europa la situazione è simile, pur se con leggere variazioni tra i Paesi. Nel complesso, dunque, cibo ed energia non arrivano mai al 50% della spesa familiare, contrariamente a quanto spesso si sente dire nel dibattito pubblico. Il loro impatto psicologico è però molto alto, quindi è anche per questo che le banche centrali, come la Fed o la Bce, guardano con particolare attenzione all’inflazione core ovvero proprio perché le voci cibo ed energia sono soggette a forti oscillazioni legate a fattori geopolitici, stagionali e climatici. E questo era il secondo fattore del nostro scenario: un'inflazione che come si dice in gergo rimane «sticky», appiccicosa.
Ultimo ma non ultimo il sentimento del famigerato FOMC, Federal Open Market Committee, il Comitato federale del mercato aperto, l’organo a 12 che decide la politica monetaria negli Stati Uniti e sta subendo crescenti pressioni per finalizzare la discesa dei tassi. Nato nel 1935 per centralizzare il controllo sulla liquidità attraverso i tassi, benché la Fed esista dal 1913, il FOMC è la vera stanza dei bottoni. Se prima del 1935 le decisioni di politica monetaria erano meno centralizzate e più caotiche, e questo è stato un segnale di garanzia per i mercati, qualcosa negli anni non ha funzionato troppo bene in termini di comunicazione: fino al 1993, i verbali delle riunioni del FOMC venivano pubblicati con 5 anni di ritardo. Oggi vengono diffusi tre settimane dopo ogni riunione, come misura di trasparenza. La decisione fu presa sotto la presidenza di Alan Greenspan.
E ricordiamo la dichiarazione di Paul Volker che negli anni Ottanta portando i tassi d'interesse al 20% per combattere una feroce inflazione che negli anni '70 era sfuggita di mano causò una recessione ma salvò la credibilità della banca centrale. La drastica mossa fu accompagnata dal mantra della Fed: «La stabilità dei prezzi è il contributo più importante che la politica monetaria possa dare alla crescita economica». La Fed ha infatti un doppio mandato diviso tra stabilità dei prezzi, ossia controllo dell’inflazione, da un lato e piena occupazione, ossia lavoro e crescita economica, dall’altro lato. Raramente i due mandati della Banca centrale americana sono entrati in conflitto. Come sta succedendo nell’attuale contesto. Siamo in uno scenario - per dirla con le parole degli analisti di Black Rock - «no hiring, no firing», un equilibrio dell’incertezza fra le imprese che non assumono e non licenziano.
Una fase espansiva della Fed potrebbe ridare fiducia? Il Dow Jones ha risposto subito continuando la striscia positiva mentre S&P 500 e Nasdaq si danno più tempo. In rosso i decennali Usa che solitamente seguono le aspettative sui tassi e che in questo periodo storico si trascinano anche una ragionevole attesa di ulteriore svalutazione del dollaro ai minimi storici sull’euro.
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