La condizione dei detenuti nelle carceri italiane non è esattamente al vertice delle preoccupazioni dell’opinione pubblica. Per molti, una volta che il criminale è stato tolto dalla società e rinchiuso dietro le sbarre, quale sia la sua sorte interessa ben poco. Poi però succedono episodi come quelli che sono emersi dalla sconvolgente indagine che ha portato alla luce torture, percosse selvagge e spedizioni punitive da parte di agenti di polizia penitenziaria ai danni di detenuti, a seguito delle rivolte dell’anno scorso in vari istituti di pena: fatti, documentati anche con eloquenti video, che hanno indotto molti, anche i meno interessati all’argomento, a interrogarsi su cosa succeda nelle nostre prigioni, un universo parallelo a cui in genere non si vuole pensare ma che ora, dopo le immagini che tutti hanno visto, non si può più ignorare.
Molti tengono a ricordare che non si può mettere sotto accusa l’intera categoria degli agenti di polizia penitenziaria, ma che bisogna limitarsi a colpire i singoli responsabili. Il che è senz’altro sacrosanto. Ma cosa si deve pensare quando si constata che le violenze sui detenuti sono state attuate pressoché contemporaneamente in numerose carceri di tutto il Paese come evidente ritorsione per le rivolte dei giorni precedenti? E cosa si deve pensare quando nelle immagini di un video si vedono decine se non centinaia di agenti che si accaniscono sui detenuti, mentre quelli che non infieriscono si guardano bene dall’intervenire, limitandosi ad assistere passivamente al raggelante spettacolo?
Ognuno dia la risposta che ritiene più appropriata, in attesa che i tribunali diano la loro. Nel frattempo il ministro della Giustizia Cartabia ha già pronunciato parole inequivocabili, parlando di «tradimento della Costituzione». E infatti una cosa si può affermare con certezza: che vedere persone in uniforme, il cui unico scopo sarebbe quello di custodire altre persone private della libertà, accanirsi su queste ultime abusando del proprio potere e applicando la primitiva regola della vendetta, è tutto fuorché costituzionale. La vendetta non è contemplata fra i principi fondanti della nostra carta fondamentale. Eppure questo è ciò che è successo durante quella mattanza. D’altra parte, di cosa stupirsi? Lo spirito di vendetta è lo stesso che anima la gran parte dell’opinione pubblica quando invoca la scure della giustizia sui responsabili dei crimini, per i quali spesso e volentieri auspica non solo che vengano messi nella condizione di non nuocere più alla società, ma che ciò avvenga in una condizione di sofferenza: da qui il disinteresse per la situazione delle carceri, dove in fondo – pensano molti – peggio stanno i detenuti e meglio è.
Ma se si possono capire (anche se non giustificare) questi ragionamenti nei discorsi da bar della gente comune, di sicuro tali considerazioni sono inaccettabili e pericolosissime se applicate da uomini appartenenti a una forza di polizia, che hanno il compito di garantire che nelle carceri venga applicata la legge dello Stato e non quella del taglione. Invece proprio questo è ciò che sembra essere successo. E se è successo è perché c’erano le condizioni affinché succedesse, ovvero una situazione in cui alla privazione della libertà si aggiunge l’applicazione di un’afflizione abnorme e non prevista da nessuna legge, e quindi, in ultima analisi, una negazione della dignità. E quanto la dignità sia stata tolta ai detenuti vittime di maltrattamenti l’hanno visto tutti, anche all’estero, dove quelle immagini di violenza non sono passate inosservate e di sicuro non contribuiscono a migliorare la considerazione già pessima che hanno del nostro apparato statale.
La grandezza di una nazione la si può misurare da tante cose: una di queste, anche se non ci si pensa quasi mai, è il modo in cui lo Stato si occupa delle persone che ha sotto la propria custodia, per le quali è responsabile e delle quali sicuramente non può mai diventare il carnefice.
francesco.bandini@gazzettadiparma.it
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