ANNIVERSARIO
C’era una città, la più dinamica del Paese, così attaccata ai soldi fin dal Medioevo da avere una via a Londra, Lombard Street, dove i longobardi prestavano danaro. Nemmeno la Controriforma di San Carlo Borromeo poté guarirli dalla febbre pecuniaria. La metropoli custodiva capolavori d’arte, come l’«Ultima cena» di Leonardo, in Santa Maria delle Grazie, opera del Bramante; era una Venezia padana sui Navigli collegati al Ticino, progettati dal multigeniale Vinciano al tempo del Ducato dei Visconti e degli Sforza. Gente spiccia ma all’epoca delle grandi cattedrali gotiche europee aveva edificato a rilento il Duomo con i marmi di Candoglie che dalla Val d’Ossola arrivavano alla Darsena su chiatte recanti la scritta «A.U.F.», cioè: «Ad Usum Fabricae», pertanto esentate dal pagare dazio. Di qui la locuzione «a ufo» per designare una cosa gratuita. Se le Cattedrali gotiche coeve sembrano desiderare una vertiginosa ascensione verso il cielo, il Duomo ha l’aria di un marmoreo tempio edificato da gente che ama restare con i piedi per terra e che per evitare sorprese sgradite l’ha munito di un’irta selva di guglie aghiformi e aculei difensivi: vedi mai che rispunti un dinosauro devastatore. Ma non spaventa nessuno. Ad Achille Campanile sembra «un mazzo di asparagi». Via via venendo all’oggi , una popolazione di indole laboriosa, aveva messo sugli altari nuove divinità: in primis il Dio Danée, che unendosi alla Dea Laurà aveva figliato la stirpe dei Titanidi Ruscanti, capeggiati da Tunnel, Ruspa e Caterpillar, nonché quella delle Muse creative, protettrici di Scala, Moda e Calcio, tre eccellenze mondiali.
Governata da un socialismo riformista attento ai bisogni sociali, si era però poi arricchita e involgarita oltre misura. Il ceto produttivo e quello politico-amministrativo avevano stipulato un patto scellerato: in cambio dell’assegnazione degli appalti pubblici gli imprenditori sborsavano un bonus pari al dieci per cento del valore complessivo che finiva nelle tasche dei politici e da lì nelle casse dei partiti, salvo trattenute per il disturbo, s’intende. Un enorme aggravio di costi scaricato sulla Finanza pubblica: un chilometro di nuova Metropolitana costava sei volte quelli di Zurigo e Parigi. Il nuovo Piccolo Teatro rimase voragine per trent’anni e bisognò pagare cinque volte il previsto. Ogni gara d’appalto aveva la sua tangente terminale fissa e le sue modifiche in corso d’opera. Ricordo un ingegnere edile con studio affacciato sui lavori per il Passante ferroviario in via Napo Torriani. Aveva calcolato in sei mesi il ritardo degli scavi e in cento milioni la settimana il rapinoso maggior costo. Niente da fare nemmeno assegnando gli appalti mediante pesca bendata di una delle palline uniformi. Semplice: metti la pallina giusta in freezer e il tatto del pescatore troverà la ghiacciata vincitrice. Milano era diventata «Tangentopoli»: folgorante definizione coniata da Piero Colaprico, brillante cronista di «Repubblica». Era una Milano che stava cambiando pelle e anima. La Milano da bere e da sniffare, delle strade piene di modelle dall’incedere fatale, nel Quadrilatero della moda gli stilisti si combattevano attici e palazzi a suon di dieci e passa milioni di lire il metro quadro. La «nouvelle cuisine» piaceva da pazzi con piatti come il «Misto imperiale di Gambero veloce del Ticino e Ambolina del Golfo Stradivari». La cocaina imbiancava le notti folli, le fogne milanesi scaricavano nel Lambro e da qui nel Po, litri di residui allucinogeni da far cantare le raganelle giorno e notte. Le fabbriche chiudevano. Banche e costruttori edili si erano gettati nella ristrutturazione delle vecchie case di ringhiera del centro e sui Navigli il cui prezzo, sloggiato il popolino, passava da cinquecento mila lire a tre milioni il metro quadro. L’altro businness prosperava con il recupero delle aree dismesse. Era iniziata l’era della corsa al «Loft»: fondachi, fabbriche, officine e magazzini diventavano un unico locale che garantiva il piacere di una convivenza gomito a gomito, come nella caverna neandertaliana riattata dal «designer», in grado di eliminare ogni rischio di solitudine domestica. Separato da un paravento a due metri di distanza, puoi sentire i rumori dell’igiene e lo scroscio della Jacuzzi mentre fai colazione nell’angolo cottura, dotato di divanetto estraibile dallo sgabuzzino che ha in sé un sedile a scomparsa e un congegno che cala dall’alto lo schermo del televisore.
Il Psi era al governo da cinquant’anni, con la Dc e il Psdi, poi anche il Pci era stato cooptato in giunta. Un partito comunista dominato dall’ala autonominatasi «migliorista», che sconfitti i «peggioristi», operaisti senza più operai, in saldo accordo con il Garofano di Bettino Craxi, sotto lo sguardo ignaro della magistratura, si prendeva la sua parte. Facevano la cresta su tutto: dai sacchetti dei rifiuti, ai bus degli aeroporti, dagli ospedali alle mense scolastiche. Nel 1991 arriva in Procura Antonio Di Pietro: sarà lo sgretolatore del sistema; ma in un modo e con esiti incredibili. In breve. Nel mirino della magistratura milanese ci sono tre prede pregiate, Ligresti, Craxi e Berlusconi. Il primo a cadere nel luglio del ’92 è il costruttore siciliano. La sera stessa del suo arresto Jannacci improvvisa una ballata «Ligrestino finalmente ti hanno preso» con la platea in delirio che grida insulti vari. il secondo, Bettino, è ritenuto il responsabile delle ruberie dei suoi. Il terzo perché finanziatore del leader Psi, che gli aveva spianato la strada per la conquista della miliardaria tv privata: e poi perché ritenuto, persino dal presidente della Repubblica, utilizzatore di soldi mafiosi. Il capo della Procura milanese, Borrelli, crea un «pool» detto «Mani pulite» che sospinto da Di Pietro sventra i bassifondi tangentizi e muove guerra totale al Cavaliere. Il quale si presenta alle elezioni del 1994: le vince, va al governo, viene inquisito dal «pool»: dal quale – colpo di scena- si è dimesso, sei giorni prima dell’interrogatorio, proprio il Di Pietro che diceva: «Quello lì io in dibattimento lo sfascio»...
Non solo, si scopre che il pm molisano nel frattempo si era incontrato più volte con Berlusconi, pare che avesse accettato di fare il ministro, bloccato in questo dal presidente Scalfaro, che convincerà pure Bossi a far cadere il governo Berlusconi, il quale però tornerà presidente del Consiglio nel 2000. Nel ’93 scoppiano bombe a Milano, Firenze e Roma, vengono uccisi Falcone e Borsellino. E’ il linguaggio della mafia, terrorizzata perché Falcone è arrivato a scoprire l’intreccio tra «Tangentopoli» e «Mafiopoli», spiegherà Di Pietro, diventato nel frattempo ministro nel governo Prodi . «Perché Lima, l’uomo di Andreotti in Sicilia ucciso nel ’92 a Mondello aveva ricevuto una somma dal gruppo Ferruzzi, di Raul Gardini, il quale aveva ammesso di aver distribuito una tangente di 150 miliardi di lire ai politici», Di Pietro: «Ero d’accordo con l’avvocato: l’avrei interrogato proprio su quell’argomento». Mancava un quarto d’ora all’appuntamento: «Non so, forse in un impeto di orgoglio, Gardini si sparò», commenta l’ex pm posseduto da un tarlo sempre in azione: «Sarei arrivato ad Andreotti», afferma: «Ma mi hanno stoppato. Hanno cercato di infangarmi, mi è andata bene. Falcone e Borsellino hanno pagato con la vita, uccisi dalla mafia».
Torniamo a Tangentopoli, anno 1992. Eccoci a Milano. Sindaco Pillitteri, giusto trent’anni fa, il «pool» di Mani pulite apriva la stagione della caccia a voi signori di Tangentopoli... «Magari fosse così! No: il capo della Procura, Borrelli, voleva sterminare la categoria stessa della corruzione: disse che bisognava distruggerla, darle fuoco e poi spargere il sale sulle macerie fumanti. Capito? Un’impresa impossibile, tu puoi e devi scovare il corrotto ma la corruzione è ineliminabile. E allora colpisci a caso. Dio che disastro!». Giampaolo Pillitteri, il «cognato» sindaco dal 1986 al 1991 ha ottantadue anni,, scrive e gira film: «Che le cose andassero in un certo modo, in politica, lo sapevano tutti, anche lui, Di Pietro, il mio caro amico Ninì. Eh, bei tempi quelli della Prima Repubblica, la repubblica dei favori tra politici, magistrati, giornalisti, imprenditori... E perché invece il Di Pietro 2, non più Ninì, ha preso il lanciafiamme e ha incenerito soltanto il Psi e mezza Dc? No, non è giusto».
Molti socialisti allora erano seguaci di Mandeville, il medico filosofo francese-londinese che nel Settecento teorizzava la bontà della corruzione nel creare il più vasto benessere comunitario e collettivo possibile. Il mondo felice dei socialisti milanesi si dissolve a cominciare dal 17 febbraio del '92, un lunedì freddo e umido. Scena prima. Pio Albergo Trivulzio, l’ospizio comunale. Il presidente Mario Chiesa sta ricontando la mezza tangente di 7 milioni in 70 banconote da 100mila lire che un imprenditore monzese gli ha appena consegnato in una busta. Scatta la trappola, due carabinieri irrompono nell’ufficio e beccano il potente politico del Psi con il malloppetto in mano: «Sono soldi miei!», dice, «No, sono nostri», replica il capitano Zuliani che lo dichiara in arresto. Mezza tangente non perché vigesse la regola del «soddisfatti o rimborsati» ma perché il concusso era in cattive acque: ottenuto un appalto per le pulizie del valore di 140 milioni doveva scucire il 10 per cento al Mario «mariuolo». Una cosuccia, tutto sommato, rispetto a quel che verrà in seguito. Il 3 marzo, intervistato dal Tg3 Bettino Craxi – il «Cinghialone», lo chiamavano i pm di Borrelli, a loro volta ribattezzati da Pillitteri «i 4 dell’Ave Maria» – definisce Chiesa «un mariuolo», una mela marcia in un paniere di virtuosi. Mai trittongo provocò danni maggiori. Chiesa è in carcere da sedici giorni. Muto. Non una parola. Di Pietro non gli cava una sillaba. Il magistrato comincia a canzonarlo: «Mariuolo? Bella gratitudine è quella che riceve da Craxi per avergli svezzato il figlio alla politica. Dicono che Craxi non lo sapesse, ma lei ci crede?». E poi ecco l’infallibile «cherchez la femme»: la moglie separata fa causa all’ingegnere, vuole più soldi per il figlio, lui la maltratta. La signora sa tutto di lui. Quanti conti correnti, e dove. Il trentatreesimo giorno di San Vittore, Di Pietro sussurra all’avvocato difensore Diodà: «Chieda al suo assistito se preferisce la Ferrarelle o la Fiuggi». Sono i nomi dei conti correnti miliardari di Chiesa a Lugano. Che parla per sette giorni filati con Di Pietro: il quale ne esce con la mappa completa sotterranea delle tangenti. Ed è la fine del mondo. Ogni giorno, clangore di celle sbattenti, tintinnio di manette e schiavettoni; urla da interrogatori, pianti e confessioni; cortei di fiaccole e canti intorno al Palazzo di Giustizia per incitare gli eroici giudici del pool Mani pulite stragisti dei corrotti e dei corruttori: «Borrelli e Di Pietro, non tornate indietro».
Adesso c’è la fila di imprenditori e di politici che vanno a confessarsi dal pm furbo e audace. Arrivato a Milano da Bergamo, un passato di emigrante in Germania, fa comunella con il potere locale. Ascolta, dà pacche sulle spalle e annota e si chiede: ma i concussi perché non si ribellano, non vanno in Procura a denunciare il pubblico concussore? Ma siamo pazzi? Tutti sapevano, e a tutti andava bene. Non c’era concussione: erano d’accordo, quindi perseguibili entrambi. Che fare? Di Pietro è un mastino intelligente: l’unico modo è quello di andare a scoprire il falso in bilancio che da una parte o l’altra l’imprenditore deve piazzare per giustificare l’uscita dei soldi per la tangente. Così. Accusati di falso in bilancio i privati si giustificano dicendo che senza quel versamento non avrebbero avuto accesso agli appalti: quindi vittime di concussione. Il magistrato propone un accordo: chiudiamo in fretta la colpa del falso in bilancio se tu mi dici tutto quel che sai. Sì? Bene. No? In galera a meditare.. Un eccesso, una violenza ingiustificata? C’è chi non ha retto e ha scelto di togliersi la vita: almeno venti persone muoiono suicide, tra queste grandi nomi come Gardini e Cagliari, il presidente dell’Eni suicida in carcere. E poi politici, amministratori di enti pubblici. E con l’inchiesta Mani pulite qualcosa viene recuperato, alcuni miliardi di lire. Mario Chiesa chiede di patteggiare restituendo sei miliardi e mezzo. Però! E gli altri, vien da chiedersi… Una stagione pluriennale quella di Mani Pulite, dal 1992 al 1997, con l’«anno del terrore» nel 1993. Ventimila indagati, duemilacinquecento provvedimenti, milletrecento arrestati e processati, novecento condannati più seicento patteggiamenti.
Mani Pulite diventa anche uno spettacolo televisivo di successo: Di Pietro in toga è un divo vendicatore. Figlio di contadini di Montenero di Bisaccia fisico imperioso da pastore zampognaro davanti al quale adesso tremano i potenti, come il Dc Forlani ridotto a omarino tremulo e sfiatato. Arriva al suo cospetto anche Craxi. Che confessa che sì tutti sapevamo che la politica viveva mediante bilanci irregolari o illegali. Craxi, il «Cinghialone», se ne andrà ad Hammamet. Di Pietro è tornato nel natio Molise. Campa bene con le cause intentate per diffamazione. «Ne ho promosse 383, di cui 150 già vinte. Con queste altre conto di raccogliere un altro paio di milioni. Tra i perdenti c’è anche Berlusconi. Aveva detto che io non mi sono mai laureto. Ho portato il diploma di dottore in Giurisprudenza. Ha dovuto sganciarmi 90mila euro. Ma è un signore: lo ha fatto sorridendo». Ne ha buoni motivi, da quei giorni il Cavaliere è stato quattro volte premier. Nonostante, o grazie? «Mani Pulite».
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