Tutta Parma
Lorenzo Sartorio
Un tempo, non parliamo di Adamo ed Eva, ma dei primi anni del dopoguerra, certa frutta , come ad esempio le banane, era appannaggio solo delle tavole dei ricchi mentre, chi ricco non era (e di gente alla quale, a quei tempi, andava male ce ne era davvero tanta) si arrangiava con quella che donavano, in estate, le piante degli orti e, in inverno, con quella che veniva conservata «in t’al granär». Erano tempi in cui i monelli, in estate, nelle prime ore del pomeriggio, quando gli ortolani degli orti, vinti dal caldo e dalla fatica, schiacciavano un pisolino, facevano le loro scorribande in quegli appezzamenti verdi geometricamente coltivati all’ombra delle antiche mura della Cittadella per scorpacciate di amarene e ciliegioni, i prelibati «duròn bjanch e ròss». Ma c’era anche frutta senza padrone di piante spontanee che crescevano qua e là in una periferia cittadina, ancora campagna, la quale, pian piano, stava cedendo il passo e… i campi alla città. I frutti senza padrone erano molto ambiti dai ragazzi i quali si avventavano su quelle povere piante saccheggiandole, tirando i rami, oppure salendovi sopra come scimmie alla ricerca dei frutti più belli che, guarda caso, erano sempre i più difficili da raccogliere perché annidati nei rami più alti.
Le prede più facili, anche se non si trattava di frutta, erano la care vecchie «tomàchi» (pomodori) che si potevano raccogliere direttamente dalle piantine in quei campi infiniti di via Budellungo delimitati da un fossato nel quale scorreva acqua purissima. Che scorpacciate e quanti mal di pancia!! Ma ci stava, in quanto la gioventù d’un tempo, meno vaccinata e meno vitaminizzata di quella attuale, probabilmente, era più forte e più temprata alle intemperie della vita. Ma quali erano i frutti estivi più graditi ai ragazzi che, come sciami d’ api, si portavano in bici nei luoghi di saccheggio? Sicuramente le brusche e dissetanti amarene erano una preda abbastanza comune. Un altro frutto di ieri ormai sparito era il «bàricocol», il biricoccolo. Un frutto che ha una sua appassionante storia raccontata molto bene nel bel libro «La frutta antica della campagna parmense» di Enzo Melegari per i caratteri di Tecnografica edizioni Accademia italiana della cucina delegazione di Parma. «La sua storia - osserva Melegari - si perde nella notte dei tempi, è infatti originario dell’Asia, presumibilmente formatosi tra un incrocio naturale tra albicocco e mirabolano. A Parma fu portato dai giardinieri francesi al seguito della Duchessa Maria Luigia». Nei giardini delle ville signorili, solitamente sorvegliate da cagnacci che non consentivano intrusioni strane, un’altra pianta molto ambita era il giuggiolo con i suoi frutti con polpa bianca, tenera, poco succosa e di sapore dolce-acidulo che ricordava vagamente quello del dattero. Le mele più buone, si sa, maturano in autunno, ma i ragazzini d’un tempo davano la caccia anche alle mele acerbe o a quei «pomèn» estivi come quelli di «San Giovanni» e di «San Rocco» capaci di togliere la sete facendo «scargnir» (digrignare) i denti. E, come non citare i «perèn äd San Zvan», gustosissimi, che maturavano in occasione della «rozäda». Altra frutta, con o senza padrone, erano «al brùggni», in modo particolare quelle selvatiche, ma anche quelle più pregiate come le «zucchelle» che, però, erano ben vigilate dalle «rezdóre» le quali le raccoglievano per fare la tradizionale marmellata per le loro torte da sagra.
Tante altre piante selvatiche erano in grado di regalare frutti gustosi e succosi in quelle zone verdi della città, teatro di giovanili scorribande, come quei boschetti sull’argine della Parma all’altezza del Ponte Dattaro, nelle bassure della Cittadella o in quei campi di via Torelli che circondavano una «Centrale del Latte» che profumava del nettare di vacche nostrane e di vita. Un’altra pianta, cara alla memoria di tantissimi ex ragazzi, è il gelso con i suoi «mòr» bianchi e rosso-vino. Una volta, e speriamo davvero di non ritornare a quei tempi anche se le attuali prospettive non sono delle più rosee, quando ad una persona andava male, si diceva che «al magnäva pan e mòr o pan e sigòlli», tanto erano considerati umili questi due frutti della terra. I«mòr», per la nostra gente, non erano le more di rovo molto diffuse in montagna, ma le more di gelso, quella pianta, che tanti anni fa, era molto coltivata nelle nostre campagne. Legata strettamente all'allevamento del baco da seta, grazie alle sue foglie, il gelso, era considerato una pianta sacra dalla gente dei campi. A questo proposito nel 1° volume «Tradizioni Parmigiane» di Enrico Dall'Olio (Grafiche Step editrice) si fa riferimento alla processione di San Marco, il 25 aprile, nel corso della quale si svolgevano le tradizionali «rogazioni» attraversando i campi. A questi riti partecipavano anche le «rezdóre», le quali, a primavera, per guadagnare qualcosa, sistemavano i graticci («arèli»), sacrificando la cucina o la camera da letto per allevare un quarto o mezza oncia di bachi da seta. Puntualmente, la vigilia di San Marco, le donne, si recavano in città a comprare il seme dei cosiddetti « cavalèr» per portarlo all'indomani in processione dentro una scatoletta di cartone con la speranza di propiziare l'aiuto del cielo sulla loro fatica. La scatoletta, dopo la processione, veniva alloggiata sotto la trapunta del letto per favorire la nascita dei preziosi bachi. Alla cura dei bachi si dedicavano le donne anziane o quelle in stato di gravidanza avanzata, infatti era considerato un lavoro non molto faticoso al quale potevano attendere anche i bambini, ovviamente, per le mansioni più semplici. Quindi, la cucina, la camera da letto e il granaio della casa contadina erano invasi dai graticci dai quali, nel silenzio notturno, proveniva quel familiare e quasi impercettibile rumore di stagione di instancabili, voraci, piccole bocche che sgranocchiavano tenerissime foglie di gelso bianco.
Al gelso, sono state attribuite diverse proprietà officinali, mente il legno, non particolarmente pregiato, era utilizzato per fare attrezzi agricoli o piccoli oggetti di intarsio. Come il noce, che ogni famiglia contadina non poteva non prevedere «äd dardè ca» per la preziosità dei suoi frutti che venivano custoditi per l'inverno «'n t'al granär», anche il gelso fu vittima di superstizioni. E, se le mamme non consentivano ai bambini di giocare sotto un noce, perchè considerata una pianta malefica in grado di fare ammalare i piccoli di rachitismo «mäl d'al simjòt», anche chi si avvicinava al gelso poteva correre guai seri, poiché si pensava che la pianta potesse attirare, più delle altre, i fulmini.
Inoltre il suo nome dialettale «mòr», suonava in molti posti in modo nefasto evocando la morte. Altre superstizioni, invece, non solo assolvevano il gelso, ma lo ritenevano un amuleto in grado di allontanare gli spiriti maligni ed, allora, si confezionavano corone di rami che venivano appese alle pareti per proteggere la casa da influssi malefici. Frutti antichi, ora sostituiti da altri d’importazione e, comunque, nemmeno lontani parenti di quelli che i ragazzi di ieri, negli assolati pomeriggi estivi, saccheggiavano da quelle piante non martoriate da diserbanti o veleni vari, ma accarezzate dal sole, dall’aria, dalla luna e dalle stelle.
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