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C'era una volta

Quando il mare dei parmigiani erano i fiumi

Quando il mare dei parmigiani erano i fiumi

di Lorenzo Sartorio

08 Luglio 2024, 03:01

Una scommessa vinta che è valsa una cena. Una scommessa, a prima vista impossibile da vincere per l’apparente irrazionalità dell’oggetto su cui verteva. Invece, alla fine, ha vinto chi, filosoficamente, ci ha creduto di più. Due «pramzàn», famiglie al seguito, con rispettive auto, andarono a trascorrere la giornata di festa nel nostro mare e, quando diciamo «nostro mare» , alludiamo alle magiche Cinque Terre. Al temine della calda giornata marinara, i preparativi per il ritorno. «Fai l’autostrada?» chiese l’amico all’altro. «Certo» fu la risposta. «Co' vót ch'a faga la Ciza o al Lagastrél acsi a vén a ca' d’matén'na». L’altro amico ribattè: «mi, invéci, a fagh al Lagastrél e at' vedrè ch'a són a Pärma prìmma che ti, scometèmma 'na sén’na?». Sapete come è andata a finire? L’amico che scelse il percorso autostradale rimase imbottigliato in una colonna e, imbufalito, tornò casa a notte inoltrata. L’altro, invece, riuscì agevolmente a cenare a casa e godersi, nel ritorno, un bellissimo oltre che rilassante panorama.

Non è più una notizia ma, purtroppo, un triste ritornello. Il ritorno dal mare della domenica sera, per i vacanzieri parmigiani del fine settimana, il più delle volte, si trasforma in un incubo. Si parte bei rilassati dalle spiagge, si imbocca l’autostrada e, dopo pochi chilometri, un incidente banale o tragico causa file di oltre venti chilometri che tramutano il viaggio di ritorno in un’odissea che termina al casello cittadino nelle prime ore della notte. Ed, allora, si soffre, si impreca, si stramaledicono governo e autostrade, agenzie di viaggio e villeggiatura. Il seguito è un film anche troppo noto che non vale neppure la pena descriverlo. Un tempo, ma non tantissimi anni fa (parliamo degli anni cinquanta o giù di lì), le partenze per la villeggiatura erano diversissime al punto da assomigliare ad un «camel trophy» in piena regola. Alla mattina prestissimo (a volte ad orari antelucani) c’era la sveglia preceduta da un’agitazione serale non indifferente. Le valige, rigide ed ingombranti, erano pronte già da alcuni giorni. Si attendeva solo di chiuderle all’ultimo momento inserendo gli spazzolini da denti e il dentifricio. L’operazione della chiusura dei bagagli era movimentata e convulsa in quanto, delle tre o quattro valigie, una, solitamente, non si chiudeva mai ed occorreva la pazienza, ma soprattutto la forza erculea del capofamiglia il quale, usando tutta l’energia che aveva in corpo, riusciva a chiudere il bagaglio ribelle con la speranza di riaprirlo in albergo.

Dopo avere fatto una colazione leggera per non appesantire troppo lo stomaco in vista dei tornanti, si caricavano le valigie sulla Topolino o la Giardinetta e si partiva all’avventura dopo i ripetuti saluti dei nonni che raccomandavano prudenza ai figli e ubbidienza ai nipotini i quali, accovacciati nei sedili posteriori dell’utilitaria, sgranocchiavano caramelle in attesa di appisolarsi. Il viaggio vero e proprio iniziava alle porte della città, destinazione il mare più vicino a casa: il Ligure o il Tirreno. In direzione Langhirano o Fornovo (a seconda del passo prescelto da valicare), si procedeva verso il Lagastrello, il Cirone, la Cisa, il Bocco o il Centocroci in quanto l’autostrada non era che un sogno o un’immagine fantastica che si poteva scorgere in qualche film americano. Si attraversavano strade provinciali costeggiando campi e prati che vedevano già all’opera frotte di contadini, si incrociavano pochi autoveicoli, qualche camion ed una pattuglia della «Stradale» a bordo di gigantesche e rumorose moto. Poi, finalmente, ci si inerpicava per strade in salita che obbligavano l’autista a scalare una marcia facendo ringhiare il motore della povera utilitaria. Ed iniziavano le curve. Il percorso, come per una sorta di strano maleficio, si tramutava in un toboga e, fatti alcuni chilometri, ecco le prime fermate sul ciglio della strada per dare la possibilità ai bambini di liberarsi della precedente colazione mentre la mamma teneva loro la fronte. Dopo un centinaio di curve, alcune soste «idrauliche», al limitare di boschi e prati, mai contate fette di limone anti - nausea che venivano inghiottite come pane, si giungeva al fatidico passo dove la sosta era d’obbligo (quasi si fosse raggiunta la vetta dell’Everest o del Bianco) per godere il panorama, respirare aria buona e addentare quel panino che la nonna aveva preparato con cura a casa. Dopo di che iniziava la discesa verso il «mare nostrum» attraversando paesini che, poco a poco, abbandonavano sembianze alpestri per acquisire fattezze marinare con tanto di palme, ortensie e gerani nei giardini, profumo di ginestre e oleandri, facciate delle case dai colori vivaci e un sole che diventava sempre più sfavillante quando, usciti dall’ennesima galleria, si specchiava sull’acqua azzurro - cupo del mare.

Finalmente si era giunti alla meta. Improvvisamente apparivano spiagge ben ordinate con file di ombrelloni e sdraio, cabine bianche come cresimande, baracchini dove si vendevano bibite e cocco e l’immancabile ferrovia che lambiva il lungomare. Già si pregustava il primo bagno nell’acqua salata, i castelli di sabbia, le piste su cui far correre le biglie, la fettina di «coccobello» da gustare rigorosamente dopo avere effettuato il bagno e le traversate sul pattino con papà.

Si giungeva finalmente in albergo. Un paio di premurosi camerieri prelevavano le valigie, mentre gli straniti villeggianti si impossessavano della camera «vista mare» che profumava di pulito e sapone Palmolive. Dopo poco si era già nell’acqua con altri bambini, muniti di retine ed innocue fiocine alla ricerca di pesciolini talmente minuscoli che sgusciavano via da tutte le parti. E poi le onde, i motoscafi, le solitarie vele, qualche bastimento al largo con la sua sagoma annebbiata, il solito aeroplanino che si portava appresso uno striscione pubblicitario, il bagnino dalla pelle scura e coriacea appollaiato sulla sua vedetta lignea come il pappagallo dell’isola del tesoro sulla spalla del vecchio pirata, gli amichetti e le amichette, i castigati costumi femminili, le musiche dell’epoca diffuse da uno sguaiato juke box.

Tra granatine, cocco, canzoni allegre e spensierate, profumo di mare e di oleandri, i giorni volavano via e già si pensava al ritorno scalando il solito e familiare passo per mangiare un panino, attendere pazientemente che sulla strada transitassero non già file d’auto o Tir, ma greggi di pecore e qualche mucca, acquistare i funghi e i pecorini dalle montanare che si incontravano lungo il tragitto o raccogliere le fragoline di bosco che, una volta portate a casa, ci avrebbero ricordato gli spensierati giorni delle nostre indimenticabili vacanze autarchiche. Ma c’era anche chi, il bagno, lo faceva in acque molto più «nostrane» e cioè quelle del Ceno, della Parma, del Cedra dell’Enza e del Taro. E, a proposito del Taro e delle sue «spiagge», come non ricordare la bella figura di Renzo Tagliavini, noto a tutti come il «Caimano del Taro», colui che salvò da sicuro annegamento 80 persone? Come spiegò in un’intervista rilasciata anni fa alla Gazzetta di Parma, Renzo, asserì che vide morire annegato nel fiume un amico quando aveva solo

12 anni. Da allora, promise a se stesso che mai più nessuno sarebbe morto in Taro mentre lui si trovava lì. E mantenne la promessa: nei decenni successivi, infatti, la sua presenza quotidiana in quelle acque, allora gettonatissime dai parmigiani, servì a salvare la vita di tante persone che stavano per essere tradite dalle correnti e dai «fondoni» del fiume. Ma anche le solenni acque del Po diedero vita negli anni cinquanta- sessanta ad autarchiche spiagge. A quei tempi, in Po, si poteva pure pescare e nuotare senza il pericolo di finire in un reparto « Infettivi». E, questo, valeva anche per gli altri fiumi e torrenti come la nostra «Pärma». I tuffi preferiti dai «pramzàn» che restavano a casa per le vacanze erano nel «marètt» sotto il Ponte Bottego dove ci si poteva immergere nel famoso «fondone» mentre un altro molto ambito specchio d’«acqua madre» era situato nei pressi del Ponte Dattaro. Lo si poteva raggiungere da un sentierino che era ubicato dove ore sorge l’allungamento di viale Rustici che collega a Via Langhirano all’altezza di Villa Nazzani («Ca' dal Vèsscov»). Si scendeva verso riva attraversando un fitto boschetto di gaggie («gazjär»), nido anche di tanti «moróz» in cerca di intimità.

Giunti sul posto ci si poteva tuffare e, perché no, anche «grotär» e cioè catturare con le mani, sotto i sassi, piccoli pesci, in prevalenza, «cavasén». Queste le estati di molti parmigiani di ieri. Nostalgia? Per qualcuno forse sì.

Lorenzo Sartorio

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