Salute
L'illuminazione è nata in un momento di sconforto da entrambe le parti: paziente e fisioterapista. Lui, Massimiliano Mezzadri, oltre alla difficoltà quotidiana del Parkinson - e legato al Parkinson - doveva decidere il destino della sua azienda e era preoccupato per il futuro: quel giorno non era proprio concentrato sugli esercizi da fare.
Lei, Gigliola Torello, famosa per la sua testardaggine, non riusciva ad accettare di vederlo arrendersi e dopo l'ennesimo tentativo di convincerlo è sbottata in un dispiaciuto: «Certo che noi andiamo bene a fare del teatro...». È allora che le è apparso subito tutto: «C'era già la faccia di Franca (l'attrice e regista Franca Tragni, ndr.), c'era già il progetto, c'era già perfino l'immagine di questa stanza».
Era il 2019 e («incredibilmente») quella visione è diventata realtà a tempo record: le colleghe Roberta Sfulcini, Nicoletta Ricci, Federica Savi e Simona Ferrari non l'hanno presa per pazza ma hanno accettato la sfida, e anche il resto dei «sì» è stato inaspettatamente immediato. In poche settimane erano già nella sala della chiesa di San Leonardo, dove si ritrovano ogni irrinunciabile martedì. E da laboratorio di terapia riabilitativa sono diventati una vera compagnia teatrale composta da sedici attori tra fisioterapiste e soprattutto pazienti. La regista - Ça va sans dire - è proprio Tragni e i loro spettacoli fanno sold out.
Il segreto? Lo ha gridato in modo liberatorio uno spettatore nel bel mezzo di una delle ultime rappresentazioni, a Castelnovo Monti: «È proprio così, è proprio così!». Anche lui malato, aveva sentito nominare con parole esatte ciò che fino a quel momento non riusciva a spiegare. E non è un caso: il testo è autobiografico e firmato - senza saperlo - proprio da chi si è trovato a salire sul palco e ha scoperto un nuovo talento.
In quei primi martedì, oltre a lavorare su espressioni, voce e movimento, Tragni li aveva fatti scrivere e parlare tanto: delle loro vite, della malattia, delle emozioni, del loro essersi ritrovati gruppo. «Un giorno è arrivata dicendoci: “Bene, abbiamo lo spettacolo”. E erano proprio le nostre cose, non le parole di altri», racconta con la stessa emozione di allora la fisioterapista Simona Ferrari.
Gianpaolo Bellanova aveva incantato con le sue poesie e i suoi haiku. «Mi sento come un carretto con le gomme buche. Ma io non mi arrendo e lo trascino fino in fondo alla strada» aveva messo su carta Giovanni Canetti. «Vivo come un convalescente, in attesa però di una guarigione che non arriva», era la definizione di Gianpaolo Filipello.
C'è chi ha messo lo sguardo della speranza, come Ginetta Gianferrari: «Quando ogni mattina apro gli occhi su questo mondo, mi incanto». C'è chi la speranza «è che un giorno mi ritorni il sorriso», confida oggi anche al pubblico Idajet Fiku. C'è chi ha trovato l'ironia. Di fatto è una serie di piccoli, grandi miracoli, quella che è accaduta dal primo martedì. Come dice Cristina Avanzini, «ci ho messo quattro anni per riuscire a dirlo in famiglia, cinque al lavoro e pensavo ce ne sarebbero voluti dieci per farlo in pubblico». Invece no.
Tutti, quando sono arrivati la prima volta, si sentivano come lo spettatore di Castelnovo: «È una malattia di cui si conosce poco, di fatto solo il tremore, e di cui sono sottovalutati tanti aspetti - raccontano mettendo insieme i pezzi -. Ti cambia la voce e pure la memoria, ti colpisce anche in età lavorativa e quando hai figli piccoli e spesso la diagnosi è tardiva». C'è chi perde il lavoro perché non governa più le mani come sapeva, chi fino a un minuto prima stava facendo qualcosa e poi il corpo improvvisamente si blocca: non sai quando arriverà e quanto durerà e non tutti capiscono. «E quando ne parli, rischi la svalutazione: «Eh, anch'io tre mesi fa ho avuto una brutta influenza...».
Ecco perché è diventata terapia ben più larga del previsto. Accade pure davanti al taccuino della cronista, in una diversa improvvisazione di voci. «Queste donne e questi uomini hanno le parole e i corpi in gabbia, che il teatro ha liberato - spiega Franca Tragni -. Ho lavorato con diversi gruppi di persone legate da una malattia. Il Parkinson è molto visibile per il suo tremore, ma è come se io in loro non lo vedessi più». «Capisco quel che dici - le fa eco Margherita Corradi - perché anch'io qui non vedo più la mia malattia. E meno male che li ho incontrati: ci si scambia davvero un affetto enorme, ben al di là della malattia».
Persino le fisioterapiste hanno imparato velocemente che la regista non vedeva altro che attori: «Non conosceva le loro limitazioni e da subito ha richiesto esercizi e movimenti che in palestra non ci saremmo mai sognate - ridono -. Loro, come pazzi, la assecondavano e li facevano davvero e noi con le mani nei capelli per la paura». «Ora siamo fisioterapiste più autentiche», aggiunge Torello. «Questa esperienza ci ha resi nel tempo tutti uguali, attori della vita», conferma la collega Nicoletta Ricci.
«Ero arrivato a un punto in cui non ne venivo più fuori, non avevo più forza per combattere - testimonia “Max” -. Ora ogni martedì è una crescita, il giorno eccezionale della settimana e io sento che ho già vinto: ho riacquistato la mia vita e la mia dignità. E poi siamo l'unica compagnia che a fine spettacolo scende dal palco e si mette a parlare con gli spettatori, in serate che non finiscono più».
«Ho alcuni amici che sono tornati a rivederci - continua “Gio”-. Mi sono stupito e ho chiesto perché: “Perché mi fa bene”, hanno risposto». Lo riassume bene Ferrari: «Il Parkinson nasce da una carenza di dopamina, l'ormone della felicità. Sembra una banalità ma quando arrivi a fine spettacolo si sente questa energia: quel giorno lì è una dose gratis». Gratis per tutti.
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