lettere al direttore
Lettera al direttore
Gentile direttore,
scrivo queste righe con un sentimento profondo di gratitudine che sento il dovere di condividere pubblicamente.
Per giorni ho riguardato l’ultimo messaggio inviato a mia madre, con il terrore che potesse essere stato l’ultimo scambiato con lei. Un messaggio banale, quotidiano: «Come va? Passo stasera a trovarti», accompagnato da una piccola emoji a forma di cuore. Mai avrei immaginato che, in quella notte del 23 novembre, avrei potuto perdere la persona che, insieme a mio padre, amo di più al mondo.
Mia madre stava combattendo senza saperlo una guerra invisibile contro se stessa: una grave malattia autoimmune che l’ha portata rapidamente in terapia intensiva, intubata, ventilata meccanicamente e sedata. Undici giorni incosciente. Undici giorni che sono stati i più lunghi della mia vita, trascorsi con il telefono sempre in mano e il cuore sospeso, temendo quella telefonata che nessuno vorrebbe mai ricevere.
Ma questa non è una storia di dolore. È una storia di speranza, ed è soprattutto una storia di sanità pubblica che funziona.
Grazie all’eccellenza, alla competenza e all’umanità dell’équipe medica e infermieristica della Terapia intensiva dell’Azienda ospedaliera di Parma, insieme all’équipe del dipartimento di Nefrologia e dell’Emodialisi acuta, la cosiddetta «catena della sopravvivenza» ha funzionato in ogni suo anello.
Dalla dottoressa della Terapia semintensiva respiratoria che, al primo peggioramento dei parametri, non ha esitato un istante nel disporre il trasferimento in Terapia intensiva.
Al responsabile della Terapia intensiva che ha preso in carico mia madre nelle ore più critiche e che è stato il primo a spiegarmi, con chiarezza e umanità, la gravità della situazione, trovando parole capaci di contenere la mia disperazione.
A tutti i medici, infermieri e operatori sanitari che per undici giorni hanno curato mia madre come fosse una persona di famiglia, aggiornandomi quotidianamente sulle terapie, sui miglioramenti e sulle difficoltà, senza mai far mancare umanità, rispetto e vicinanza.
Un pensiero va anche ai medici consulenti coinvolti nella diagnosi, e a quel giovane dottore che, pur provato da un momento di grande carico emotivo, ha trovato la forza e la lucidità per informarmi con professionalità e rispetto.
A tutti voi, eroi silenziosi, va la mia più profonda riconoscenza. Avete fatto in modo che quel messaggio non fosse l’ultimo. Avete dato a me e a mio padre una seconda possibilità: quella di continuare a dire a nostra madre quanto la amiamo.
Dopo settimane difficilissime, posso oggi scrivere che mia madre è tornata a casa il 15 dicembre. È ancora un percorso di recupero, ma è a casa. Viva. Con noi.
In un’epoca segnata da guerre, conflitti e divisioni, la dedizione, l’altruismo e la competenza che ho visto in questi reparti rappresentano per me una delle più alte espressioni di civiltà. Aveva ragione chi diceva che il progresso di una società non si misura dalla forza dei suoi eserciti, ma dalla solidarietà verso i più fragili.
Un ringraziamento finale, ma non meno importante, va a tutti i donatori di sangue e plasma: persone sconosciute che, con un gesto di straordinaria generosità, hanno contribuito concretamente a salvare la vita di mia madre. A loro va il mio grazie più sincero e un appello, soprattutto ai giovani, a donare: quel gesto può davvero fare la differenza tra la vita e la morte.
Grazie a tutti coloro che ogni giorno, lontano dai riflettori, tengono in piedi il nostro sistema sanitario e restituiscono speranza alle famiglie.
«Se io potrò impedire a un cuore di spezzarsi non avrò vissuto invano. Se allevierò il dolore di una vita o guarirò una pena o aiuterò un pettirosso caduto a rientrare nel nido, non avrò vissuto invano».
Yannick Chiesa
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