30 anni fa la strage
1997 LE CONDANNE DI MANDANTI E AUTORI
La mafia di Corleone ha pagato la strage di Capaci: il processo di primo grado per l’assassinio di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo, dei tre poliziotti della scorta Antonino Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani s’è concluso con 24 ergastoli – Totò Riina e per tutti i capi della 'commissione regionale' come Piddu Madonia e Nitto Santapaola e per quelli della 'commissione di Palermo' come Bernardo Brusca, Pippo Calò e Raffaele Ganci.
A parte il Maxi bis, il ter e il quater, seguiti dalla procura di Palermo, va ricordato che, dopo la sua morte e quella, a luglio, di Borsellino (l’unico candidato alla sua successione), nessuna indagine o processo delle dimensioni di quello messo in piedi -con successo sino alla Cassazione- da Falcone e Borsellino ha colpito la criminalità organizzata. Anzi, molti processi si sono risolti con assoluzioni o revisioni nei gradi successivi di giudizio.
Negli anni e benché tutti -anche coloro che più ferocemente lo ostacolarono- si richiamino al «Metodo Falcone», nessuno è stato capace di riprodurlo. La sua capacità di lavoro, la sua onestà e la sua dedizione appartengono al patrimonio dell’eroismo di cui alcuni italiani hanno dato duraturo esempio. La mancata definizione del perimetro delle indagini e l’ammissione di teoremi indimostrabili, abbandonando i fatti, ha condotto di sovente l’attività delle procure su strade senza uscita.
Oggi, Giovanni Falcone riposa nella basilica di San Domenico a Palermo, il Pantheon del capoluogo siciliano. In Sicilia e in Italia riposa nell’animo di tutti gli uomini giusti che ne hanno colto l’eredità e la mettono in pratica.
FALCONE ALL’UFFICIO ISTRUZIONE
La vicenda Falcone ha inizio quando, nel 1979, lascia la Sezione fallimentare del Tribunale di Palermo e, richiesto da Rocco Chinnici, passa all’ufficio istruzione della Sezione penale.
È arrivato a Palermo in una stagione di silenzio mafioso. Ed è un «diverso» nel senso che non condivide i circoli e le frequentazioni dei suoi colleghi più anziani, ben addentro agli ambienti più esclusivi della città, che comprendevano tanti di coloro che avevano partecipato al sacco di Palermo.
Nella realtà alcuni funzionari e magistrati erano consapevoli che dietro la «pax mafiosa», gli affari criminali andavano a gonfie vele, ma l’attenzione generale era attratta dal terrorismo politico che ormai dilagava, stranamente non in Sicilia.
Nei tragici giorni del sequestro di Aldo Moro, veniva assassinato Giuseppe Di Cristina, boss di Riesi. Addosso aveva un assegno di 10 milioni firmato da Salvatore Inzerillo, boss della zona in cui era avvenuto l’assassinio e un’agenda con i numeri privati dei fratelli Salvo, i gestori delle esattorie siciliane, sospettati di rapporti organici con la mafia.
La vittima prima di essere ucciso, in un incontro segreto con i carabinieri aveva fornito informazioni preziose, prima fra tutte i nomi di chi l’avrebbe “giustiziato”, ma anche una ricognizione completa dei vertici dell’organizzazione criminale e l’annuncio di una frattura tra i corleonesi e la mafia tradizionale.
In quel periodo, Falcone venne chiamato a collaborare dal capo dell’ufficio istruzione Rocco Chinnici.
Aveva appena messo piede nella sua stanza, quando ricevette la visita degli avvocati degli accusati che gli comunicarono che lo «consideravano una persona perbene, che si fidavano della … equità, della freddezza di giudizio.» Un apprezzamento che conteneva una precisa minaccia.
Nei giorni successivi, data l’inconsistenza del quadro probatorio e indiziario 18 delle 28 persone arrestate per quegli omicidi vennero rilasciate. Rimasero in libertà per poco tempo …
Giovanni Falcone mise subito a frutto l’esperienza nella sezione fallimentare affrontando il lato economico dell’attività di Di Cristina: iniziava così ad applicare la risolutiva intuizione di seguire il denaro, che tanti elementi gli avrebbe fornito e che tanti criminali avrebbe condotto nelle patrie galere.
E mostrò subito una insolita abnegazione nel proprio lavoro. Non si staccava dai fascicoli e metteva in relazione le notizie che andava acquisendo. Il nucleo fondante del cosiddetto «Metodo Falcone» era proprio costituito dall’applicazione totale e da una totale dedizione alla delicata professione.
Come accade in ogni ufficio pubblico chi lavora con efficacia e produce è subito mal visto, non tanto per ciò che fa, ma per ciò che rivela di neghittosità, di superficialità, di inefficienza e incapacità negli altri addetti al medesimo servizio.
NASCE IL POOL ANTIMAFIA
Rocco Chinnici aveva ideato un pool di magistrati antimafia, che, a causa del suo assassinio il 29 luglio 1983, venne concretamente realizzato subito dopo dal suo successore Antonino Caponnetto.
Il nucleo originario era composto dai giudici istruttori Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello.
Giovanni Falcone, con gli altri e in particolare con Paolo Borsellino (con il quale si consolidò un forte rapporto professionale e personale) convinse -e non fu facile- a pentirsi due importanti capi bastone come Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno.
Si stringeva così un inesorabile accerchiamento, rispetto alla quale non mancarono le reazioni violente dei mafiosi.
Con il pool la possibilità condurre a processo un numero rilevante di criminali prese concretezza.
Un primo punto fermo venne posto a settembre 1985, dopo oltre un mese trascorso dai due magistrati e dalle loro famiglie (anche i figli piccoli di Borsellino) nell’isola-carcere dell’Asinara. Qui venne portata a compimento l’operazione più complessa e documentalmente fondata della lotta dello Stato contro la mafia: l’ordinanza di rinvio a giudizio che comprendeva 8607 pagine di requisitoria e 4000 di allegati raccolte in 40 v0lumi contro 475 imputati.
In quelle 12.607 pagine c’era la ricostruzione di Cosa nostra e delle sue azioni scellerate e, accanto a essa, la dimostrazione della mancata reazione dello Stato per errori e omissioni del medesimo Palazzo di giustizia che ospitava gli uffici dei protagonisti dell’inchiesta. Un decennio di inerzie e di complicità nel quale la mafia era diventata ancora più potente e ricca. C’era altresì il racconto di come i mafiosi Leonardo Vitale e Giuseppe Di Cristina avessero confessato le loro e altrui malefatte alle forze dell’ordine e di come, subito dopo, nel 1973 e nel 1978 fossero stati assassinati. E venivano messe in rilievo le gesta eroiche di decine di investigatori, alcuni dei quali (Emanuele Basile, Boris Giuliano, Calogero Zucchetto) erano stati assassinati.
Una volta depositata l’ordinanza, Borsellino, a dicembre 1986, decise di lasciare e di candidarsi alla direzione della procura di Marsala. A rinforzare il pool arrivarono 3 giovani procuratori, tra i quali Ignazio De Francisci, di cui pubblichiamo una preziosa testimonianza.
IL MAXI-PROCESSO
L’avvio del processo ebbe varie difficoltà, la più rilevante delle quali fu costituita dal rifiuto -per varie ragioni, dietro le quali si intravvedeva la paura- dei magistrati palermitani di trattare il processo, finché non si fece avanti un giudice civile, Alfonso Giordano.
Iniziato il 10 febbraio 1986, il processo ebbe termine il 30 gennaio 1992 (data della sentenza della Cassazione che lo concluse). Si svolse nel pieno rispetto della legge e delle norme a difesa degli imputati.
La sentenza di primo grado vide la condanna di 346 imputati, con 19 ergastoli e 2665 anni di reclusione. L’impianto accusatorio aveva retto al dibattimento e così la storica sentenza, rimasta intatta sino al vaglio definitivo della Cassazione.
A dicembre del 1987, Antonino Caponnetto, il magistrato che, arrivando a Palermo nel 1984, aveva costituito il pool antimafia, lasciò la direzione dell’ufficio istruzione e indicò Giovanni Falcone come successore.
Iniziò quasi subito la stagione delle amarezze per l’autore della più grande inchiesta sulla mafia condotta a termine con un processo.
A gennaio del 1988, il Consiglio superiore della magistratura indicò in Antonino Meli il nuovo capo dell’ufficio istruzione di Palermo, bocciando la candidatura di Falcone. Gli votò contro anche Vincenzo Geraci, che era stato suo collega come componente del pool.
Una sorta di tradimento, cui si accompagnò nel marzo 1988 lo scioglimento, da parte di Meli, del pool antimafia.
L’invidia e l’acredine sorti e coltivati negli ambienti giudiziari palermitani ebbero modo di venire allo scoperto tentando di delegittimare il magistrato sul piano professionale e personale.
Leoluca Orlando in una trasmissione di Michele Santoro accusò Falcone di non avere proceduto e di non procedere nei confronti dei politici in odore di connessione con la criminalità.
Sandro Viola, su Repubblica del 9 gennaio 1992, scrisse una vera e propria requisitoria nei suoi confronti, proprio per l’esposizione mediatica cui si stava sottoponendo per raggiungere il risultato più importante della sua battaglia antimafia.
Avevano torto entrambi: Falcone non procedeva per teoremi, ma andava avanti solo quando riteneva idonei gli elementi di cui veniva in possesso.
Insomma, alcuni ambienti del Paese misero sotto accusa Giovanni Falcone a dispetto de -e proprio per- i risultati ottenuti.
DIRETTORE DEGLI AFFARI PENALI
Il 2 febbraio del 1991, Claudio Martelli diventò ministro della Giustizia e propose a Falcone la nomina alla direzione degli affari penali del ministero della giustizia: per il magistrato fu il passo in avanti da tempo atteso e che gli avrebbe permesso di studiare e proporre le innovazioni necessarie per rendere efficiente e totale la lotta dello Stato contro la mafia, anzi contro le mafie.
Il testo legislativo definito da Falcone presentava l’innovazione più sostanziale e decisiva: poiché il fenomeno criminale è un fenomeno diffuso a livello nazionale e interconnesso, era necessaria l’istituzione di una procura nazionale antimafia con i poteri di una normale procura. Questo nuovo ufficio avrebbe avuto alle sue dipendenze tutte le procure antimafia del Paese che ne sarebbero diventati i bracci operativi sul territorio.
Il progetto incontrò subito l’opposizione di influenti parlamentari del Pds, della Democrazia cristiana e di altri partiti minori della sinistra: la ragione era, ovviamente, politica. Il futuro procuratore nazionale antimafia non sarebbe potuto che essere Giovanni Falcone e i suoi prevedibili successi sarebbero stati riportati a Martelli e al suo partito, il Psi. Anche nel Csm si sviluppò una campagna contraria: la capacità, la dedizione e l’incontrollabilità politica di Giovanni Falcone e l’ampio potere posto nelle mani del capo della nuova struttura faceva temere un eccesso di polarizzazione dell’attività giudiziaria.
La legge venne quindi profondamente depotenziata in Parlamento: il procuratore nazionale antimafia diventò organo di coordinamento senza poteri specifici sulle procure antimafia. Ciò significava che il fondamentale strumento della conoscenza e del coinvolgimento orizzontale delle strutture analoghe non sarebbe stato reso obbligatorio, rimanendo sostanzialmente opzionale e demandato alle singole volontà degli appartenenti alle varie procure. Un grande favore per il crimine organizzato.
MAGGIO 1992
Il 24 febbraio 1992 l’apposita commissione del Csm votò per eleggere il Procuratore nazionale antimafia ma, nonostante l'appoggio (dichiarato) del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, la maggioranza preferì il magistrato Agostino Cordova a Falcone. Martelli si oppose subito a questa decisione e rifiutò il suo consenso, bloccando di fatto la nomina di Cordova e precludendo al plenum del Csm di pronunciarsi al riguardo. In un articolo apparso su L'Unità in quel periodo e firmato dal giurista Alessandro Pizzorusso con il titolo «Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché» si affermò: «Fra i magistrati è diffusa l’opinione secondo cui Falcone è troppo legato al ministro per poter svolgere con la dovuta indipendenza un ruolo come quello di procuratore nazionale antimafia. (...) tale opinione sarebbe accentuata, e quasi verificata, se, in sede di concerto, il ministro si pronunciasse a favore di Falcone e contro tutti gli altri.»
In un’intervista concessa a Marcelle Padovani per il libro «Cose di Cosa Nostra» Falcone formula la sua profezia: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere». In effetti, alcuni giorni prima dell'attentato, Falcone disse ad alcuni amici: «Mi hanno delegittimato, stavolta i boss mi ammazzano.»
Nell’attesa che la nomina si definisse, passarono le settimane sino a sabato 23 maggio 1992.
Dunque: nel pomeriggio, Falcone e sua moglie Francesca Morvillo atterrano a Punta Raisi, salgono sull’auto blindata in attesa. Il magistrato decide di porsi al volante e si avvia seguito dalla scorta. Giunto in prossimità di Capaci, alle 17 e 57 si trova nell’epicentro dell’esplosione di 500 kg di tritolo che fanno saltare in aria un tratto dell’autostrada A29.
L’ESEMPIO, IL LASCITO
Con l’assassinio di Giovanni Falcone (moglie e scorta furono «tragici effetti collaterali») la mafia ha voluto eliminare dalla scena il suo più autorevole avversario. Autorevole per efficienza, capacità di lavoro e intelligenza investigativa.
Sono riusciti ad assassinarlo e hanno tirato un mostruoso respiro di sollievo. Complici -volontari o inconsapevoli- dei criminali assassini alcuni partiti, alcuni parlamentari, alcuni uomini di comunicazione, alcuni componenti del Csm e tutti coloro che gli fecero guerra per tutto ciò che era e che riusciva a realizzare.
Gli italiani che amano il loro Paese chinano commossi il capo di fronte al monumento morale rappresentato da Giovanni Falcone e da chi è caduto al suo fianco.
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