Storia
Verso le due del pomeriggio del 4 febbraio 1937, due compagnie del Battaglione Garibaldi dei volontari italiani della Guerra di Spagna, la prima e la terza, partono da Mirabueno, paese liberato con un vittorioso attacco da Guido Picelli il 1° gennaio, per raggiungere la lunga e stretta collina «El Matoral» nei pressi di Algora, occupata dai franchisti. Marciano a fatica per il forte vento e il freddo intenso. Per percorrere 15 chilometri su un terreno accidentato e scosceso, attraversando campi aridi, pietrosi, aggirando burroni e strapiombi tra Mirabueno e «El Matoral», le due compagnie impiegano circa due ore.
Al comando dei garibaldini è Guido Picelli, che è stato nominato sul campo vicecomandante del battaglione da qualche giorno. L’obiettivo dei volontari italiani, secondo quanto ha scritto nel 1938 nelle sue memorie di Spagna Randolfo Pacciardi, comandante del Garibaldi, è il picco roccioso, quota1144, nel saliente di Siguenza. «Il battaglione polacco deve attaccare il monte San Cristobal che sovrasta Algora. Ed è la montagna più alta fino a Siguenza. Noi dobbiamo proteggere il fianco del battaglione attaccante, cioè occupare le creste de El Matoral seguendo la direzione del rio Dulce fino ad Aragosa».
La collina brulla de «El Matoral» è il lato più lungo di una specie di «elle» che si congiunge al lato più corto dello sperone del San Cristobal.
In prossimità della collina occupata dai franchisti, Picelli ordina alla terza compagnia, comandata da Ferrari, di attaccare sul lato destro, mentre la prima compagnia attaccherà sul lato di Aragosa, arrampicandosi per un dirupo molto scosceso.
Non c’è bisogno di dare battaglia. I franchisti appena si accorgono che sono attaccati alle spalle e da un lato dalla tenaglia dei volontari italiani del Garibaldi, fuggono verso l’attiguo San Cristobal, lo sperone fortificato che è più difendibile. Dal basso Pacciardi si accorge che Picelli, è in testa ai suoi uomini. Lo fa chiamare: «Lo rimprovero severamente perché marcia sempre in testa alla truppa…». Ma forse Pacciardi è preoccupato per altro. Gustav Regler, scrittore tedesco e importante comandante delle Brigate Internazionali di Spagna, scrive ne «La grande Crociata», straordinario libro con la prefazione di Hemingway, ancora inedito in Italia, cosa Pacciardi sta pensando di Picelli: «Vorrei proprio dirtelo, mi piacerebbe passarti il comando; per me tu sei uno dei grandi italiani, e non importa quello che alcuni dei tuoi amici possono avere contro di te».
Al colloquio tra Pacciardi e Picelli è presente anche Antonio Roasio, stalinista di ferro, uno di quelli che aveva motivi di rancore con Picelli. «Benché zoppo ha voluto seguirmi» annota malignamente Pacciardi di quel giorno. Roasio è il commissario politico per il Partito comunista del Battaglione Garibaldi, l’altro commissario per i socialisti è il parmense Amedeo Azzi, già Ardito del popolo nelle barricate del 1922. Antonio Roasio, membro dell’Ufficio quadri del Comintern, ufficio collegato all’Nkvd, la polizia segreta di Stalin, prima a Mosca e poi a Parigi ha avuto diversi motivi di attrito con Picelli. Quando arrivarono insieme a Parigi, Picelli invece di ottemperare agli ordini di Roasio incontrò l’amico Michele Donati, che aveva abbandonato il Partito ed era stato bollato come «rinnegato». Ridendo, Picelli confessò a Giorgio Braccialarghe, il suo vice nel 9° battaglione internazionale ad Albacete: «Alle cinque sono arrivato a Parigi e alle cinque e mezza ero in casa di Donati».
Michele Donati «Masi», fuoriuscito qualche mese prima di Picelli, aveva abbandonato il Partito comunista per entrare nel Partito socialista massimalista. Incurante delle possibili ritorsioni di Roasio e degli stalinisti, Picelli aveva incontrato addirittura Julian Gorkin, il segretario internazionale del POUM, il partito comunista spagnolo antistalinista, accusato dagli stalinisti, per delegittimarlo, di trotskismo.
Picelli, aveva concordato con Gorkin, che arrivato a Barcellona avrebbe dovuto assumere il comando di un battaglione dei miliziani del POUM, considerati ingiustamente per il solo fatto di essere degli antistalinisti anche dai volontari italiani, a causa della massiccia e ingannatrice propaganda sovietica, dei nemici quanto i franchisti e i fascisti.
C’è da sottolineare che i quattro volontari del Garibaldi, ancora in vita, che intervistai anni fa all’inizio delle mie ricerche per il film «Il Ribelle», erano all’oscuro che Guido Picelli avesse abbandonato a Parigi il PCd’I per aderire, seppur per breve tempo, al POUM dei comunisti antistalinisti di Andreu Nin. Sarebbe bastato che qualcuno dei comandanti stalinisti del Battaglione avesse spifferato a qualcuno dell’adesione di Picelli al POUM, anche se era rientrata, per metterlo in grave pericolo con i suoi stessi soldati.
Ma cosa accade quel giorno a Guido Picelli su El Matoral? Uno storico parmigiano a mio parere poco avveduto, che in passato si è prodotto in madornali errori nell’interpretazione di documenti sovietici, ha innalzato di recente nuovamente la sua bandiera dell’errore, dicendo ai quattro venti «Picelli è morto in battaglia…», forse per avvalorare i titoli militaristi di certi libri o ritenendo attendibile una versione dei fatti, diffusa da un ufficio delle Brigate internazionali di Spagna, controllato da personaggi molto vicini all’NKVD, la polizia segreta di Stalin.
Ogni volta che questo storico si pronuncia, a mio parere ignorando le ricerche più recenti e interessanti su Guido Picelli, fa apparire ancora attuale una riflessione di Paolo Tomasi, pubblicata sulla Gazzetta di Parma 8 maggio 1979: «La ricostruzione storica della figura di Picelli è tuttora incompiuta. La biografia risulta carente negli aspetti e nei periodi».
Dopo due sopralluoghi su El Matoral, aver ascoltato i garibaldini Antonio Eletto, Giovanni Pesce e Vincenzo Tonelli, gli ultimi testimoni dei fatti ancora in vita, aver scoperto un documento segreto del Cominter che smentisce in modo evidente la versione delle Brigate internazionali, aver scoperto alcuni documenti importanti negli archivi dei servizi segreti franchisti di Avila, ho smontato perfino nei più piccoli dettagli la versione data dalle Brigate internazionali. Evidentemente, per taluni storici, questo non è bastato, anche se ho dimostrato che Guido Picelli non è stato ucciso in battaglia da una sventagliata di mitragliatrice e tanto meno mentre infuriava il combattimento.
Allora perché continuare a insistere su una versione di comodo omettendo di chiedersi qual era lo scopo di tale versione?
La moglie di Guido Picelli, Paolina Rocchetti, arrivò a Madrid l’8 gennaio a tarda sera e vide la salma del marito il 9 composta presso la Casa dei sindacati della capitale della Spagna. Alcuni compagni del marito gli riferirono le circostanze dell’uccisione del marito: «Non durante un vero e proprio combattimento ma durante un’azione di ricognizione: fu colpito da un cecchino in appostamento con un colpo alle spalle» come dichiarò la vedova con una lettera a L’Ora citata anche da l’Unità del 10 maggio 1953.
Quindi, secondo la moglie, Picelli era «in ricognizione». E non si va in «ricognizione» quando è in corso un combattimento. Affermare che era in corso una battaglia con sventagliate di mitragliatrice doveva giustificare, in qualche modo, il fatto che Picelli colpito alle spalle fosse stato abbandonato ferito senza soccorsi e anche l’inverosimile ordine ai volontari garibaldini di abbandonare le posizioni su El Matoral invece di rispondere al presunto fuoco nemico del «cecchino» in appostamento? Il fatto che Picelli fosse stato colpito alle spalle è un fatto incontrovertibile, come ha testimoniato anche Giorgio Braccialarge che trovò il cadavere nella notte tra i 4 e il 5 gennaio 1937 abbandonato su El Matoral. Non ci sono poi giustificazioni al fatto che nessuno dei compagni cercò di aiutare Picelli mentre era a terra ferito. Pacciardi stesso nelle sue memorie del 1938 del libro «Il Battaglione Garibaldi» scrive che Picelli è stato «colpito da una fucilata…», che ovviamente non è una sventagliata di mitragliatrice. Se però per alcuni non è sufficiente la testimonianza della vedova Picelli, perché non era presente ai fatti, occorre dire che ci sono diverse altre testimonianze a confermare le sue parole. Ne citerò solo una e di un certo peso.
In un articolo de «Il nuovo Avanti» giornale socialista del 30 gennaio 1937, firmato «Milite rosso», si legge, «Da poco giunto al battaglione, di cui era il vicecomandante, l’ex deputato di Parma, l’eroico comandante degli Arditi che aveva messo in fuga nel 1922 le bande di Balbo, si era guadagnata la stima e l’amicizia di tutti i volontari. Comandante della Prima Compagnia, egli era uscito dalla trincea, con il suo aiutante Campanini, per studiare il terreno dove doveva svolgersi l’attacco». «Milite rosso» è un nome di battaglia attribuibile a Pietro Nenni, per «l'ostile riconoscibile e confrontabile», come hanno sostenuto gli storici e i curatori degli scritti dell’uomo politico nel libro «Spagna». A parte forse una imprecisione nell’articolo, per aver scritto di una «trincea» invece che di una «postazione» (se la trincea non fosse stata presa ai franchisti, i garibaldini non potevano averla scavata in così poco tempo), l’articolo dell’Avanti, aggiunge un particolare importante. Secondo Pietro Nenni, alias «Milite rosso», quando Picelli venne colpito da una fucilata alla schiena non era solo, ma c’era con lui il suo aiutante Giovanni Campanini. Purtroppo l’unico probabile testimone oculare, colui che aveva riferito a Nenni le circostanze della morte di Picelli, è deceduto da molti anni. Quando però iniziai le ricerche per il film «Il Ribelle» accadde un fatto strano. Rintracciai in Francia figlia di Campanini per chiederle una fotografia del padre da confrontare con altre che avevo trovato a Mosca. La donna sentendo il nome di Picelli mi parve molto preoccupata, quasi impaurita di una telefonata di un ricercatore che chiedeva solo una foto del padre per un documentario. Perché era così preoccupata? Cosa le aveva riferito il padre di quel giorno su «El Matoral»?
Dopo qualche settimana sorprendentemente mi scrisse una mail una funzionaria del Comune di Reggio Emilia che era stata incaricata dalla signora Campanini di informarsi su di me e sull’obiettivo delle mie ricerche. Tramite la funzionaria reggiana tranquillizzai la signora Campanini che dopo poco mi inviò una foto del padre.
Non so il motivo dell’apprensione della signora Campanini che però si potrebbe spiegare con il fatto che il padre le avesse confidato qualcosa su quanto era accaduto a Guido Picelli quel giorno su «El Matoral». E questa non fu l’unica cosa strana, dubbiosa che mi accadde durante le ricerche su Guido Picelli, ma ne parleremo in altra occasione.
C’è da aggiungere che dopo la Liberazione dell’Italia, Pietro Nenni, per salvare l’onore delle Brigate Internazionali, giustamente o ingiustamente ignorò molti fatti misteriosi ed esecrabili che erano accaduti in Spagna. Non volle, come anche altri, fare distinzioni tra i molti coraggiosi volontari che lottarono per la Libertà e i pochi che commisero crimini in nome di Stalin. Nell’immediatezza dei fatti, nel gennaio 1937, «Milite rosso», alias Pietro Nenni, non volle però essere un «killer della storia» come alcuni nostri storici locali che guardano prima all’ideologia che ai fatti, e concluse così l’articolo sulla morte di Picelli: «Una di quelle pallottole che noi chiamiamo perdute, e che purtroppo non sono sempre perdute per tutti, lo stese a terra, morto». Cosa gli aveva raccontato Giovanni Campanini di quella pallottola «che non era perduta per tutti» alla quale in quel momento politico e militare Nenni poteva accennare nel suo articolo solo in modo sfumato tra le righe?
© Riproduzione riservata
Contenuto sponsorizzato da BCC Rivarolo Mantovano
Gazzetta di Parma Srl - P.I. 02361510346 - Codice SDI: M5UXCR1
© Gazzetta di Parma - Riproduzione riservata