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LA DOMENICA

Lalla Romano: «Mi interessavano le bellezze del mondo, e perciò l’arte, che in qualche modo le riproduce»

Lalla Romano

di Isabella Donfrancesco

26 Agosto 2024, 12:30

Milano, Biblioteca Braidense, autunno 2017

Nell’angolo della casa milanese di Lalla Romano, quartiere Brera, fedelmente ricostruito nella sala a lei dedicata presso la Biblioteca Braidense, entro per una visita accompagnata da Antonio Ria, che è stato accanto a Lalla dalla maturità fino alla morte, il 26 giugno 2001 e di lei conserva e custodisce la memoria personale e intellettuale.

In questa stanza la scrittrice riceveva e scriveva. Qui erano appesi molti dei suoi quadri e raccolti i suoi libri. Qui mi ha ricevuta almeno tre volte, dagli anni Ottanta fino agli ultimi anni Novanta per interviste che il tempo aveva reso più confidenziali. Affettuose, direi, nonostante lo stile asciutto ed essenziale della scrittrice, piemontese di Demonte, “un piccolo paese in una valle attraversata da un fiume, la Stura di Demonte”.

Graziella Romano, detta Lalla, ha attraversato il Novecento senza tradire l’imprinting delle origini, il paesaggio di Demonte prima, la Torino intellettuale degli anni Venti e Trenta poi.

Quando mi riceve per la prima volta sul finire degli anni Ottanta, non posso fare a meno di notare la perfezione dell’incarnato quasi trasparente e i lineamenti non segnati dal tempo. Lalla è identica ai suoi ritratti appesi in salotto e la pittura rappresenta un capitolo importante nella sua biografia.

Pittrice di grande scuola, prima che scrittrice, è stata allieva di Felice Casorati: di quel periodo ha scritto in Una giovinezza inventata, uno dei suoi romanzi più letti.

“Da giovane ho esercitato soprattutto la pittura - mi racconta -. Sono stata allieva di grandi maestri, ho frequentato studi d’arte e poi, dopo la guerra, ho interrotto questa attività e ha prevalso invece in me la passione per la scrittura”.

Scrittrice in versi e in prosa, Lalla Romano è riuscita a coniugare nel suo stile essenziale e necessario i vuoti e i pieni della musica e del silenzio, la memoria dei paesaggi piemontesi e quella del mito omerico in forme limpide, spesso paratattiche, prive di concessioni o indulgenze. A tratti severe. L’ascolto e la visione hanno accompagnato le sue pagine fino agli ultimi lavori, i cui manoscritti recano anche piccoli disegni a margine. Per noi oggi chiose, capricci o punteggiature poetiche.

“La scrittura poetica non deve essere necessariamente in versi: Montale diceva che ci sono libri in prosa che sono di poesia, e libri scritti in versi che sono prosa. Qualcuno ha osservato che io ho usato il linguaggio della poesia per scrivere libri in prosa - mi dice -. Se questo è vero vuol dire che mi sono espressa secondo ciò che desideravo, perché la vera difficoltà è passare dall’esperienza interiore alla scrittura”.

Raccontano di Lalla le molte fotografie conservate e catalogate da Antonio Ria. Da quelle in cui la scrittrice bambina è ritratta dal padre a Demonte in esterni, ai molti scatti della maturità e della tarda età, soprattutto legati a viaggi. Ma più di tutti parlano i dipinti alle pareti. L’insieme di queste immagini sembra recitare il lungo rosario della memoria, rimandando al metodo narrativo di Lalla, quel “concreto della memoria” che il poeta Vittorio Sereni seppe riconoscere e ammirare.

“In quasi tutti i miei libri sono stata definita autobiografica. Io non considero corretta questa definizione, anche se apparentemente lo è: a cominciare dal primo romanzo, Maria, ho sempre parlato di persone che ho conosciuto, andando oltre l’autobiografismo”.

Il ruolo conoscitivo della memoria per restituire voce ai silenzi della storia è quanto Lalla ha utilizzato con puntigliosa scientificità: La penombra che abbiamo attraversato, Le parole tra noi leggere, Le lune di Hvar, tanto per citare i titoli più noti, attingono a periodi diversi del vissuto della scrittrice senza sottrarsi alla rievocazione di pagine anche molto dolorose della sua vita. Accade nel romanzo Nei mari estremi, dove il racconto del rapporto con il marito Innocenzo - quattro anni di innamoramento e quattro mesi finali della malattia di lui - tornano alla luce in un complesso lavoro di scavo e sottrazione, scontornando ogni parola sulla pagina bianca. E di Innocenzo parla il ritratto che rinnova la sua presenza sulla parete del salotto della casa di Brera.

Mentre si racconta a distanza di qualche anno nei nostri incontri tutti legati a quel salotto dove torno a sedermi sulla medesima poltrona di fronte a lei, capisco il senso proustiano della poetica che salda l’opera di Lalla Romano alla più gloriosa tradizione del Novecento: tutto, a cominciare dalla sua persona, rimanda a una naturale passione per le arti e a una nostalgia della bellezza e dell’armonia primaria osservata innanzitutto nella natura di Demonte e ritrovata poi nelle pagine e nei luoghi di Omero.

“Quando io ero piccola - mi confida Lalla -, mio padre suonava il flauto vicino la mia culla, con la speranza che io amassi la musica, e così è stata la mia infanzia. Perciò ho ereditato i gusti dei miei genitori: la loro predisposizione di amore verso la vita e verso gli altri, e il loro disprezzo verso il fasto, verso la socialità di tutte le cose vane. Questa è stata la base della mia educazione. Ho sempre saputo che mi interessavano le bellezze del mondo, e perciò l’arte, che in qualche modo le riproduce. Tutte le arti. Non credo che sia un artista vero chi non ama il mondo, la vita, la bellezza delle cose”.

Di questo amore per la bellezza per il quale Lalla ha scelto una misura fatta di sottrazioni e di delicati equilibri dice ancora oggi quella stanza della memoria ricostruita presso la biblioteca Braidense. I paesaggi piemontesi, la Grecia di Omero riconosciuta come patria dell’anima, le linee asciutte dei ritratti alle pareti, le pagine accompagnate dagli schizzi autografi a margine e le molte fotografie scattate in età diverse custodiscono la memoria di Lalla Romano e di un secolo - il Novecento - che lei ha attraversato con passo lieve.

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