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La domenica - L’occhio del Dragone

Un Gufo gigante tra il fumo dei tombini di Manhattan

Un Gufo gigante tra il fumo dei tombini  di Manhattan

Jules de Balincourt «Valley Pool Party», 2016. Courtesy Victoria Miro Gallery.

di Paololuca Barbieri Marchi

14 Dicembre 2025, 18:19

Mentre erano tutti a Miami a lottare nel traffico per assicurarsi un Vip pass per Art Basel, io sono rimasto incastrato a New York, immerso in un freddo da poliziesco anni Ottanta – fumo dai tombini, sguardi meschini e tutto il resto del telefilm.

Ho colto l’occasione per vedere una bella mostra senza gente intorno, fare location-scouting con il mio partner e incontrare un caro amico artista al bar, tirando due colpi a biliardo.

Jana Euler «On the way to the studio», 2025, olio su tela. Courtesy Greene Naftali Gallery.

Partiamo dalla mostra. Alla galleria Greene Naftali la mostra di Jana Euler era una bomba. Ad un occhio distratto poteva sembrare una collezione di immagini generate dall’intelligenza artificiale, seppur siano in realtà personaggi e soggetti che l’artista aveva già dipinto anni fa, prima che ci dessero in pasto all’Ia.

Multi-corna unicorni, gufi giganti, cani bipedi che passeggiano e gigantografie di oggetti stressati e intrappolati dalla tela che sembrano voler scappare come un detenuto ammanettato e dimenticato nei sedili posteriori di una volante, questi gli eroi protagonisti della mostra.

Jana scrive nel suo comunicato stampa che questa mostra è una riflessione sull’atto creativo stesso. Molte delle opere in mostra affrontano i paradigmi del fare arte e di come si formano idee e soggetti nella mente dell’artista. Come fa la memoria muscolare di idee passate a produrne di nuove? Quando viene concepito l’atto creativo in quanto tale? Queste le domande che si chiede e a cui prova a rispondere, o per lo meno a indagare, attraverso i propri quadri.

Con Jana condivido l’ossessione per gli short di Youtube. Lei ci dedica “il centro” della mostra, con un quadro rosso che funge da cuore pulsante di tutta l’installazione; io, ormai da tempo, ho deciso di fare amicizia con il mio algoritmo di Youtube. Ora ci conosciamo e nutriamo vicendevolmente le nostre ossessioni come con quegli amici che ti consigliano di non frequentare. Una brutta compagnia a cui mi sono affezionato.

La mostra di Jana è una di quelle mostre che ogni volta che giri l’angolo ti sorprendono. Pensi di averla capita poi entri in un’altra stanza e bam! un’altra sorpresa. Come se i quadri fossero in agguato pronti a colpirti. Un po’ come il maestro Zen che si nasconde dietro all’ingresso del tempio per accoglierti con una bastonata in testa e riportarti nel presente.


Dopo aver finito il giro delle gallerie, sono andato a incontrare uno caro amico artista, Jules de Balincourt. Metà francese e metà californiano, è una delle poche persone che, seppur in carriera (a New York è rappresentato da Pace Gallery) rimane laid-back, forse anche perché è un surfista – uno di quelli che si guadagnano il rispetto nel line-up anche dai locali, nonostante i capelli bianchi. E’ cresciuto su una roccia nel deserto Californiano, da dove ha iniziato a viaggiare senza più fermarsi. L’ho conosciuto in Costa Rica, a cavallo di un ronzino sulla spiaggia. Sembrava uscito da una delle sue pitture esotico-psichedeliche.


Jules ha un bellissimo studio a Bushwick, che ha comprato con i suoi dipinti. Un vero paradiso per artisti: un edificio su due piani, con la casa sopra e un’astronave/studio sotto. Al momento, mi ha impedito di passare a vedere i quadri, perché sta “covando” nuovi lavori e ci sono passaggi che un’artista deve fare da solo, senza interferenze senza sguardi esterni, e questi momenti vanno rispettati. Nei suoi lavori, il colore ha una voce. Con una palette mai scontata, trasforma paesaggi esotici in esperienze astratte, tra l'onirico, il cinematografico e lo psichedelico. Modifica la gamma cromatica delle scene che dipinge come un light designer in un teatro, trasformando una passeggiata in montagna o un picnic in una scena epica. Quel giorno, a dire il vero, non abbiamo parlato molto di arte; le sue avventure fuori dallo studio ultimamente sono interessanti quanto le sue opere. Se volete vedere dei suoi bellissimi quadri dal vivo (lo consiglio) andate alla collezione Maramotti, a pochi chilometri da Parma, dove gli hanno dedicato un'intera stanza.


Vi lascio con un’immagine suggestiva. Una finestra al trentanovesimo piano, in un grattacielo di Midtown. Ero lì con il mio socio Marco Boggio Sella, artista e curatore di origini torinesi, stavamo facendo location-scouting con un gruppo di brokers selezionati per trovare la sede della prossima mostra di @falconart_nyc. Ci hanno portato a vedere interi piani abbandonati dalle aziende che li abitavano. Sembrava come se i dipendenti fossero stati rapiti dagli alieni.


C’erano mobili immacolati, moquette profumata e le grafiche con i loghi colorati sulle vetrate, ma non c’era traccia di vita umana, non una penna o una cartaccia; ambienti asettici come sale operatorie, scenari post-umani dovuti a una città che deve ripensare intere aree, svuotate da smart-working e costo della vita. Dall’alto di quei grattacieli ho visto una New York diversa, con le sue ferite che dalla strada non si notano. L’arte, come la penicillina, dovrebbe aiutare a risanarle, o almeno questo è il “pitch” che abbiamo fatto ai proprietari. A New York quando si cambia punto di vista, la città si trasforma. Come in un caleidoscopio, compaiono nuovi mondi e ci si perde in scenari derivati che non si potevano prevedere. Quello che ti sembrava un blocco privo di situazioni interessanti, dal trentanovesimo piano diventa una porta dimensionale che ti proietta in un episodio di Rick and Morty, e improvvisamente ti sembra di stare di nuovo al centro del mondo. E come dice Jana, nel titolo della sua mostra, il centro non si piega.

ART BASEL MIAMI BEACH: RICHTER E NEEL TRA I PIU' QUOTATI 
di 
Vera Alemani @veraalemani Art advisor, fondatrice di Alemani Fine Art Advisory. Precedente vicepresidente di Sotheby’s Private Sales a New York, già socia e direttrice di Greene Naftali Gallery e Friedrich Petzel Gallery.


La settimana scorsa si è tenuta la ventitreesima edizione di Art Basel Miami Beach, la più grande fiera d’arte degli Stati Uniti e la seconda a livello globale per numero di espositori dopo l’edizione Svizzera. Con circa trecento gallerie partecipanti provenienti da quaranta paesi diversi, l’evento rimane uno degli appuntamenti più significativi per il mercato contemporaneo. Nonostante il cielo azzurro e le temperature tropicali, l’edizione di quest’anno si rivela più sobria rispetto ai party sfrenati e al carattere festoso delle ultime edizioni, riflesso delle attuali dinamiche economiche del settore.

Sul fronte demografico, Miami consolida il suo ruolo di snodo tra Nord e Sud America. In una città dove il 70% della popolazione è di lingua spagnola, è rilevante la presenza di espositori dal Centro e Sud America (tra cui le gallerie Almeida e Dale, A Gentil Carioca ed El Apartamento), le cui proposte si sono concentrate su artiste donne emergenti, con un ritorno all’utilizzo di materiali tessili e una rivisitazione critica – e spesso politica – delle tradizioni dei paesi di origine. Tra le tematiche protagoniste: ecologia, sfruttamento, libertà di parola e diversità.

Bene per le grandi gallerie, a conferma del rinnovato appetito per l’arte “blue-chip” (gli artisti storicizzati e consolidati) dopo le aste di novembre. Tra i risultati di spicco: David Zwirner ha aperto la fiera con la vendita di un Gerhard Richter per 5,5 milioni di dollari e un Alice Neel per 3,3 milioni, oltre a importanti risultati per Josef Albers (2,5 milioni) e Dana Schutz (1,2 milioni). Hauser & Wirth ha venduto opere significative di Louise Bourgeois per 3,2 e 2,5 milioni. Tra gli altri highlight figurano un Picasso da circa 3 milioni da Almine Rech e un George Condo da 1,2 milioni venduto da Sprüth Magers.

Per le gallerie di medie dimensioni, però, il mercato appare competitivo, segnato dal turnover degli espositori, e la partecipazione comporta rischi crescenti. Nonostante la fiera abbia più flessibilità nei prezzi, il costo per uno stand di circa 50 mq si aggira intorno ai 60.000 dollari. A fronte di vendite in media attorno ai 100.000 dollari - cifra che va decurtata del 50% per l’artista e degli sconti ai collezionisti - i margini operativi si riducono. Se si sommano i costi di affitto dello stand, le spedizioni internazionali e le spese di viaggio, il cash flow annuale di una galleria può essere compromesso in assenza di vendite immediate. Infatti, nomi storici come Greene Naftali, Miguel Abreu e Sadie Coles hanno scelto di non partecipare. La loro assenza ha aperto le porte a diverse “new entry” rimaste in lista d’attesa per anni, mentre altre realtà hanno dimezzato le spese condividendo lo stand. Si evidenzia dunque una progressiva polarizzazione: da un lato le mega-gallerie internazionali, sempre più accentrate; dall’altro le piccole gallerie che fungono da incubatori di talenti, spesso destinati a essere assorbiti dai grandi player. Le gallerie di fascia media sono quelle che soffrono di più in questa morsa. Nel nuovo settore Digital Art, protagonista mediatica l’installazione di Beeple, “Regular Animals”, che consiste in sculture satiriche e robotiche semoventi con le fattezze di Elon Musk, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg, Andy Warhol e Picasso che scattano foto ed espellono stampe gratuite e Nft. Un’operazione virale in un’edizione altrimenti improntata al pragmatismo commerciale. 


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