Il sistema pensionistico è la madre di tutti gli stati moderni, che ispirano la loro azione al welfare state. Come tale il sistema pensionistico racchiude tutti i problemi di uno stato moderno, perché persegue tanti obiettivi: dalla realizzazione di un principio di giustizia nella distribuzione del reddito, un principio di equità nel rapporto tra generazioni, un principio di onesta remunerazione per chi ha riportato la propria vita lavorativa ad un sano risparmio lungimirante.
Il sistema pensionistico, peraltro, incorpora un dilemma originario: quello di portare voti nelle elezioni politiche. Soprattutto di questi tempi di crisi demografica, i pensionati rappresentano la maggioranza relativa dei cittadini, e quindi sono i candidati naturale per ricevere l’attenzione dei partiti. Dalla fame di prendere voti, emerge continuamente un’ondata di proposte per «migliorare» il sistema pensionistico, alcune sul filo della decenza. Perché - come hanno spiegato chiaramente i ragionieri della contabilità pubblica - «non esistono pasti gratis», e qualcuno alle scadenze previste sarà tenuto a pagare il conto.
La storia del sistema pensionistico in Italia ha oscillato tra riforme nella direzione corretta, e paradossi. Questi tra l’assurdo (una legge per la pensione ad un unico soggetto) ed il ridicolo (la mitica pensione dopo 15 anni 6 mesi e un giorno, senza badare all’età).
Va detto che negli ’60, in pieno boom economico della prima repubblica, l’Inps registrava un saldo attivo. Tanti nuovi lavoratori e pochi pensionati, da qui una grande generosità nel distribuire benefici pensionistici, regolarmente premiati al momento delle elezioni.
I previlegiati di allora erano naturalmente i dipendenti pubblici, ed in particolare i dipendenti delle aziende eccellenti a partecipazione statale, partire dai piloti dell’Alitalia, le telecomunicazioni, i giornalisti della Rai, i dirigenti delle banche (allora pubbliche). La pensione? Pari allo stipendio, in molti casi continuamente adeguata allo stipendio del “pari grado”. Tutte cose, se considerate oggi, con un sapore di cinismo sociale. Soprattutto se confrontate con “i lavoratori” del settore privato, condannati a pensioni modestissime. Benefici che, per fortuna, sono stati progressivamente tagliati dal sistema pensionistico vigente.
L’errore più grave fu commesso agli inizi degli anni ’90, al momento di calcolare la sostenibilità del sistema pensionistico: si immaginava che il tasso di crescita dell’economia - il Pil - sarebbe stato di almeno del 3%. Cosa che -come ben noto - non si è mai verificata nei trent’anni successivi, e quindi causa sostanziale della non sostenibilità del nostro sistema pensionistico. Su questo si è pure inserita la crisi demografica, con i 400 mila nuovi nati di oggi, rispetto al milione del dopoguerra (il baby boom). Negli ultimi decenni, con l’economia che non è cresciuta, occupazione e salari che sono rimasti stagnanti, ha comportato che le pensioni siano e saranno modeste.
Organizzare un sistema pensionistico è estremamente complicato, ma i suoi principi fondamentali basati sull’equità tra generazioni sono chiari da tempo. Un sistema pensionistico pubblico deve essere autosufficiente nel breve e sostenibile nel lungo periodo, senza indebitare in futuro figli e nipoti.
Per la bassa crescita e la demografia avversa, un sistema pensionistico di erogazione pubblica deve essere necessariamente limitato nelle proprie prestazioni. Chi vuole assicurarsi una pensione più sostanziosa, deve provvedere con risparmio proprio. (Anche tenendo conto delle diverse preferenze dei soggetti, come i “singles”). Un sistema pensionistico pubblico deve offrire un giusto riconoscimento alla differenza nella gravosità del lavoro svolto, incluso il doppio lavoro femminile (in casa e fuori). E riservare uno spazio equo alla flessibilità in uscita, tenendo come base di riferimento il capitale accantonato, e senza gravare sull’equilibrio finanziario dell’istituto di previdenza.
Infine, non meno importante, è necessario un ingrediente catalizzatore, cioè una volontà politica unitaria di promuovere la riforma con questi presupposti, senza se e senza ma, cioè senza volersi accaparrare vantaggi elettorali.
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