Il ritratto
Il 28 febbraio 2022 non è San Dino, ma è il giorno in cui Zoff, Grand’uffficiale della repubblica italiana, compie 80 anni. È la vita che passa, la storia che continua e fa uno strano effetto pensare che tagli un traguardo così suggestivo, chi è stato per tanto tempo il più splendido dei nostri portieri. Mariano del Friuli, dove è nato in tempo di guerra, è sulla strada tra Udine e Gorizia, 1.476 abitanti, la chiesa in pietra bianca, la passione per l’artigianato legato alla costruzione di sedie. Nome breve, Dino, per gente che ha molta voglia di lavorare e poca di parlare. Temeva di rimanere piccolo, per un paio d’anni si era fermato a 149 centimetri. Il falegname Sartori aveva preso l’impegno di misurarlo ogni mese, mentre la nonna, Adelaide, lo spingeva a colpi di zabaione. Due anni all’istituto tecnico, il primo lavoro al Consorzio officine meccaniche di Gorizia, e lì grandi apprezzamenti, perché come meccanico al reparto motori, era già un mezzo fenomeno e le automobili continuano ad essere il suo chiodo fisso. Però la passione vera era il calcio e il ruolo quello di portiere. A Pordenone il primo provino, su un campo dell’orbita juventina: Renato Cesarini, quello che aveva portato Sivori alla Juve, osservandolo, era rimasto dubbioso: «Non è male, ma di ragazzi che giocano in porta come lui ce ne sono tanti». E anche Meazza, che lo aveva seguito per conto dell’Inter, aveva sentenziato: «È troppo gracile». Ivone Disorz, l’allenatore della Marianese, lo aveva segnalato al Milan e dopo il test, la conclusione era stata: «Se cresce bene, può diventare qualcuno». Ma l’avevano lasciato a riparare i motori.
Abituato a far parlare i fatti, Zoff non si è scoraggiato e il 24 settembre 1961 a meno di vent’anni, eccolo già pronto per debuttare in A, a Firenze con l’Udinese (vittoria dei viola per 5-2): a lanciarlo è Cina Bonizzoni, gioca quattro partite, alla fine i friulani retrocedono, ma l’anno dopo, in B, il titolare è lui. Nell’estate del 1963, il passaggio al Mantova, in serie A. Inizia come riserva di Santarelli, ma diventa titolare in fretta. A Mantova conosce Annamaria, la sua splendida moglie; conosce per la prima volta Italo Allodi e Edmondo Fabbri resta incantato dalle doti atletiche, dal senso di posizione, dalla serietà del giocatore. Il 20 aprile 1968 esordisce in nazionale, a Napoli, la città della squadra dove gioca dal 1967 e che tanto l’ha amato, forse più di Torino e Roma: Italia-Bulgaria 2-0, reti di Prati e Domenghini, un passo importante verso il titolo, conquistato il 10 giugno 1968 contro la Jugoslavia.
Il Napoli lo aveva acquistato dal Mantova per 145 milioni e fuori tempo massimo, 45 minuti dopo la chiusura del mercato. Un impiegato postale di Milano, con l’orologio guasto, aveva accettato il contratto in lettera raccomandata con ricevuta di ritorno. Lo aveva fortissimamente voluto Bruno Pesaola, costretto a giurare davanti a Gioacchino Lauro, il figlio del Comandante, che Dino «era un fenomeno». Con lui in porta, al posto di Bandoni, il Napoli avrebbe sfiorato lo scudetto nel maggio 1971, ma i sette punti di vantaggio non sarebbero bastati per resistere alla rimonta dell’Inter. Finché arrivò l’estate del 1972, quando Boniperti e Allodi decisero di soffiare al Napoli José Altafini e Zoff, ottenendo in contropartita 330 milioni più Carmignani e Ferradini. Il problema era comunicarlo alla piazza: alla vigilia della chiusura di mercato, nessuno aveva ancora avuto il coraggio di ufficializzare la cessione di quello che era diventato un idolo assoluto. A uscire allo scoperto era stato proprio Zoff, che da Baia Sardinia, dove era in vacanza, raccontò di aver ricevuto una lettera della Juve con la convocazione per il ritiro di Villar Perosa. Divertente la battuta di Allodi ai giornalisti a Milano: «Scusate, ma ho dimenticato di dire che qualche giorno fa abbiamo finalmente preso il portiere». Senza pronunciarne il nome e nemmeno il cognome.
Alla Juve sono stati undici anni di gloria, annaffiati dallo champagne di cinque scudetti (1973, 1975, 1977, 1978, 1981 e 1982), la Coppa UEFA sotto il diluvio a Bilbao (1977), primo trofeo europeo per i bianconeri tutti italiani, due Coppe Italia (1979 e 1983) e una popolarità straripante. Perché è a Torino che Zoff ha continuato ad essere un grande portiere, diventando però anche un esempio per tutti: serietà, impegno, forza fisica e morale, capacità di non arrendersi mai, qualità da leader, senza mai alzare la voce. Anche nei momenti difficili, come quelli legati alla sconfitta di Belgrado nel 1973 e di Atene dieci anni più tardi, nella finale di Coppa dei campioni o al Mondiale 1974, quando tutto era andato storto, con l’haitiano Sanon, che aveva messo fine all’imbattibilità durata 1.143 minuti e che era valsa a Dino la copertina di Newsweek del 1° giugno 1974.
Quattro anni dopo, al Mondiale in Argentina, aveva dovuto leggere di tutto, per quei tiri mali-
gni, arrivati da lontano, due contro l’Olanda e due contro il Brasile, con il quarto posto finale: «Quattro gol e basta, che si possono segnare e che si possono prendere, senza bisogno di lapidare nessuno». Ma per cancellare quanto era accaduto nel 1978, Zoff aveva moltiplicato il suo impegno, arrivando a vincere il titolo mondiale l’11 luglio 1982. A quarant’anni compiuti quattro mesi prima, celebrati con una magnifica cerimonia organizzata dal sindaco (torinista) Diego Novelli, con dieci giorni di anticipo, perché il 28 febbraio 1982, Zoff sarebbe stato in campo a Cagliari (1-0, gol di Tardelli). In Spagna, Zoff ha salvato tante volte l’Italia, quando le cose all’inizio andavano male, quando la nazionale aveva deciso di tacere (e lui, da capitano, ne era diventato il portavoce, mai una parola fuori posto), quando il Brasile era arrivato a due centimetri dal gol del 3-3 (5 luglio, Barcellona) e le sue manone avevano fermato il pallone, deviato, prima che entrasse. A Mondiale vinto, il presidente Pertini lo aveva voluto alla sua destra al Quirinale e Renato Guttuso lo aveva scelto come simbolo del francobollo destinato a celebrare la conquista della coppa.
Zoff ha deciso che era venuto il momento di smettere, con un annuncio composto («credo sia arrivato il momento di fermarsi»), in un giorno non banale: 2 giugno 1983. E ha cominciato dal basso la carriera di allenatore, prima come preparatore dei portieri della Juve, poi nello staff di Bearzot, quindi da settembre 1986, come ottimo c.t. della nazionale olimpica, qualificata per i Giochi coreani del settembre 1988, senza che potesse sedersi in panchina perché Boniperti lo aveva voluto a giugno allenatore della Juve. Il 3 settembre 1989, il giorno più difficile per Zoff, con la notizia della morte di Gaetano Scirea, l’amico al quale era legato, suo vice in bianconero, andato a morire in Polonia, per osservare il Gornik, avversario della Juve in Coppa UEFA. A lui avrebbe dedicato la conquista della Coppa Italia contro il Milan di Sacchi (25 aprile 1990) e della Coppa Uefa (contro la Fiorentina 16 maggio 1990).
Sfrattato dall’infatuazione dei vertici bianconeri post-Boniperti per Gigi Manfredi, Zoff per otto anni ha lavorato alla Lazio, come allenatore e come presidente (durante l’era Cragnotti), prima di essere chiamato in nazionale nel luglio 1998, dopo l’addio di Cesare Maldini. Un biennio magnifico, con l’amarezza finale del titolo europeo, sfumato al 93’ con il pareggio di Wiltord (dopo la rete di Delvecchio e troppi errori sotto rete) in Italia-Francia, prima del golden gol al 103’ di Trezeguet (2 luglio 2000). E al ritorno in Italia, la grande lezione di stile di Zoff, con le dimissioni per l’attacco frontale di Berlusconi, causa la marcatura di Zidane (in realtà un pretesto per fare polvere). Gli ultimi due guizzi sono stati il ritorno in panchina con la Lazio, con super rimonta e terzo posto finale nel 2001, dopo l’addio di Eriksson e la miracolosa salvezza ottenuta con la Fiorentina nel 2005. Poi la scelta di fermarsi, perché ci vuole classe anche per fare un passo indietro al momento giusto. Classe immensa. Auguri.
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