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L'INTERVISTA

Dino Zoff, un capitano «mondiale»

Un capitano «mondiale»

Dino Zoff solleva la Coppa del Mondo

di Vanni Buttasi

29 Dicembre 2022, 03:01

Da Mariano del Friuli alla conquista dell’Italia, dell’Europa e del mondo. In un ruolo, quello del portiere, talvolta bistrattato. Sui giornali, infatti, si parla spesso di reti magnifiche ma molto meno di parate decisive. Lui, Dino Zoff, 80 anni, ha rovesciato questo luogo comune. E ha accompagnato, nel corso della sua lunga carriera, diverse generazioni. Modi gentili, fuori dal campo, sempre misurato nelle parole: sul terreno di gioco sapeva farsi valere e, soprattutto, sapeva ammettere i propri errori. Proprio per questo è una leggenda. Basterebbero i numeri per questa consacrazione: sei scudetti, due Coppe Italia, una Coppa Uefa da giocatore; una Coppa Italia, una Coppa Uefa da allenatore. Tutti trofei vinti con la Juventus. Ma anche un titolo europeo (1968) e uno mondiale (1982) con la maglia azzurra. Con l’Italia ha mantenuto la porta inviolata per 1.142 minuti, dal 1972 ai mondiali del 1974 quando fu battuto dall’haitiano Sanon. Zoff vive a Roma con la moglie Annamaria, conosciuta quando giocava con il Mantova. Il figlio Marco è un manager del gruppo Leonardo.

Quando ha cominciato a giocare a calcio?

«Come tutti, da bambino. Allora, in tutti i paesi, c’erano grandi spazi, campi e, in base alle stagioni, giocavi per ore e ore, finché arrivava il buio».

Possiamo suddividere la sua carriera in quattro capitoli: Udinese, Mantova, Napoli e Juventus. Cominciamo dall’Udinese.

«Ho cominciato nella squadra del mio paese, poi sono arrivato all’Udinese. Ricordo che andavo ad allenarmi e poi tornavo a casa. Avevo 19 anni quando ho esordito in serie A: era il 1961 (24 settembre ndr) a Firenze in Fiorentina-Udinese. Presi cinque reti. Fu un debutto che suscitò in me qualche perplessità. L’anno dopo giocai da titolare in serie B con l’Udinese e fui notato dal Mantova».

Mantova è stata una tappa importante?

«Certamente. Sono passato dalla serie B alla serie A. Mi sono trovato particolarmente bene in questa città. Ho conosciuto anche mia moglie. Tutto perfetto. È stato un passo importante, un gradino che mi ha portato al Napoli».

Il suo trasferimento al Napoli è legato ad un curioso aneddoto.

«Sembrava tutto deciso, infatti, con il Milan. Avrei dovuto giocare con quella squadra, negli ultimi minuti del calciomercato, tra diversi tentennamenti, si inserì il Napoli e così diventai il loro portiere».

Come ha vissuto quegli anni al Napoli?

«È stato un periodo meraviglioso. Grazie al Napoli sono arrivato alla Nazionale e nel 1968 ho vinto l’Europeo. Abbiamo lottato per le prime posizioni con una buona squadra: c’erano Sivori, Juliano, Bianchi, i compagni della difesa».

Ma un portiere del suo valore non poteva sfuggire all’attenzione della Juventus.

«Anche a Torino ho ottenuto grandi soddisfazioni, vincendo scudetti e coppe. L’unico rammarico, forse, la mancata vittoria della Coppa dei Campioni, sfiorata due volte. A Torino mi sono ambientato bene: posso sottolineare che in ogni città dove ho giocato mi sono sempre trovato a mio agio. Certamente a Napoli il pubblico è più caldo».

Quattro mondiali disputati, uno vinto. Come è stato il rapporto con la maglia azzurra?

«È stato bellissimo, a cominciare dalla vittoria nell’Europeo nel 1968. E, ricordo, che proprio a Napoli ho debuttato con la maglia azzurra contro la Bulgaria (il 20 aprile 1968, 2-0 il risultato, ndr) e sempre a Napoli abbiamo giocato la semifinale contro l’Unione Sovietica (5 giugno 1968, 0-0 dopo i tempi supplementari e poi monetina a favore degli azzurri, ndr). Insomma una città che mi ha portato fortuna. Ai mondiali in Messico, nel 1970, il ct Valcareggi scelse Albertosi, aveva appena vinto lo scudetto con il Cagliari. Certamente tutti volevano giocare ma bisognava rispettare le scelte. In Germania Ovest, nel 1974, c’era in atto un cambio generazionale che non portò i frutti sperati».

Poi il quarto posto in Argentina nel 1978 e la conquista del mondiale in Spagna nel 1982, a 40 anni da capitano.

«La vittoria al mondiale spagnolo fu la consacrazione di una carriera».

Qualche rammarico?

«Trionfi e delusioni fanno parte dello sport. Succede, bisogna prendere tutto filosoficamente. Ci sono partite che pensi possano andare in un modo e invece vanno in un altro e non ci puoi fare nulla».

Da giocatore ad allenatore, il passo è stato breve.

«Da giocatore ho sempre creduto nel rispetto dei ruoli. Lo stesso feci da allenatore. E tutti debbono avere un senso di responsabilità».

D’obbligo una domanda: c’è un portiere che le assomiglia?

«Donnarumma è veramente bravo. E poi Meret (friulano come lui ndr), che dovrebbe però trovare il modo di giocare di più».

Segue ancora il calcio?

«Certamente, è cambiato da quando giocavo io, soprattutto nei comportamenti. E poi oggi c’è anche l’ausilio delle apparecchiature tecnologiche».

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