L'intervista
Una parata può cambiare la storia di una partita. E talvolta di una stagione. Quella compiuta da Sebastien Frey su Tare, nello spareggio salvezza di Bologna, rischia di essere sminuita persino dal commento più encomiastico. Per motivazioni e significati che vanno oltre la già mirabile qualità del gesto tecnico. Che il calcio sia ancora capace di dispensare sentimenti profondi, dal sapore romantico, lo capisci proprio parlando con uno come Frey. Che la maglia gialloblù la sente addosso, come una seconda pelle. «Il mio Parma: quattro anni intensi, belli anche nelle difficoltà, e l'unico trofeo che ho vinto in carriera (la Coppa Italia nel 2002, ndr)» lo sintetizza, quel periodo, Frey, che per la «Gazzetta di Parma» ha deciso di aprire il suo album dei ricordi.
Lei arriva qui nell'estate 2001: all'Inter aveva già mostrato le sue qualità ma pensare di dover sostituire, specie nel cuore dei tifosi, Gigi Buffon non dev'essere stato semplice.
«Non c'è stato un solo attimo in cui mi sia lasciato sopraffare dal timore di dover prendere il posto di Gigi. Avevo consapevolezza del mio valore e la spensieratezza, propria dei giovani, che ti consente di accettare la sfida senza paura. Il Parma mi aveva voluto fortemente, pagando anche una bella somma: credeva in me. E questo mi faceva sentire in fiducia. All'inizio il peso di quel cambio lo sentirono più i tifosi, che però si affezionarono subito a me».
Questo l'ha aiutata?
«Sicuramente. Io arrivavo in quello che era ancora il grande Parma, una squadra che aveva mantenuto giocatori importanti. Era un ambiente però che trasmetteva serenità e ti dava la possibilità di crescere: fattori che hanno contribuito a rendermi l'uomo e il portiere che sono poi diventato».
Il crac Parmalat, alla fine del 2003, per la squadra fu un colpo tremendo da assorbire. Cosa accadde?
«Bisognava capire come sopravvivere, in un contesto nel quale non sapevi cosa sarebbe potuto scoppiare, da un momento all'altro. Mollare tutto sarebbe stata la scelta più semplice. E farlo, visto che non c'era più alcuna garanzia economica, poteva anche essere legittimo. Non per quel gruppo, però. Ci siamo chiusi nello spogliatoio e guardati dritti negli occhi (Frey fa una pausa, accompagnata da un lungo sospiro, ndr)».
Non era una situazione semplice, né evidentemente poteva esserci una soluzione da prendere a cuor leggero.
«I casi erano due: mettere in mora la società e, a quel punto, ognuno per la propria strada. Oppure mostrare a tutti di essere uomini veri, con principi saldi, e portare a termine la stagione. Come andò a finire, lo sapete tutti».
Ecco perché i giocatori passati da qui, in quel periodo, sono incredibilmente amati dalla gente.
«Sì, perché ciascuno di quei ragazzi ha rispettato i colori del Parma».
Arriviamo così alla stagione 2004-2005, la sua ultima col Parma.
«Una stagione tribolata dove, per ovvie ragioni, il club aveva deciso di lanciare diversi giovani provenienti dal nostro florido vivaio. Ragazzi che in seguito avrebbero fatto una bella carriera. All'epoca io avevo 24 anni, ma mi consideravano un veterano».
Inizio non brillante. Poi, con l'avvento di Carmignani il Parma cambia passo, conquistando anche la semifinale di Coppa Uefa.
«Gede per me è stato un padre. In quel momento al Parma più che un allenatore serviva un amico, un consigliere, un uomo che ci volesse bene. E Carmignani era questo. All'ultima giornata andiamo a Lecce, per salvarci bisogna vincere: è un assedio, ma non andiamo oltre il pari».
E così bisogna giocarsi tutto nello spareggio col Bologna.
«Affrontiamo la prima in casa senza molti titolari: va male (0-1, ndr) e non c'è nemmeno il tempo per preparare la gara di ritorno. Col ritiro anticipato, a Bologna, speravamo prima di tutto di recuperare le energie mentali, completamente azzerate da un'annata tormentata, nella quale avevamo sempre vissuto alla giornata, senza certezze. Eravamo esausti».
L'ultima notte prima della partita di ritorno riuscì a prendere sonno?
«Le racconto un episodio. Sento bussare alla porta della mia camera: era Gilardino. Con lui avevo un rapporto particolare, ancora adesso ci vogliamo un gran bene. Si era inventato una scusa ridicola, pur di venirmi a trovare».
E allora?
«Ci sediamo sul letto, iniziando a farfugliare qualcosa».
Era un modo per cercare conforto, per darsi coraggio?
«Penso che lui cercasse quello. E non le nascondo che, inconsciamente, era ciò di cui io stesso avevo un gran bisogno».
E cosa vi siete detti?
«Io e Gila eravamo i giocatori più pagati e sapevamo che quella sarebbe stata probabilmente la nostra ultima partita con il Parma. A un certo punto, rompo gli indugi: “Gila, noi qui abbiamo passato momenti bellissimi. Lasciare questo club dove l'abbiamo trovato, in serie A, è un dovere. C'è ancora una partita a disposizione e dipende anche da noi due. Anzi, forse soprattutto da noi due”».
Sarebbe stata una notte lunga da passare.
«Sì. Ma quelle parole ci diedero la carica, aiutandoci a dormire più serenamente. Conquistata la salvezza, e prima di lasciare il Parma, io e Gila regalammo a ciascuno dei nostri compagni un orologio. Fu un modo per dire grazie a chi aveva condiviso con noi un'avventura che straordinaria lo era stata per l'epilogo sul campo e, in particolare, dal punto di vista umano».
Certamente. Però, a Bologna, se non ci fosse stato Frey con le sue parate prodigiose... Ne ricordiamo almeno tre, oltre a quella su Tare.
«Mi piace pensare che quella parata mostruosa compiuta sull'attaccante fece scattare in noi la scintilla, la convinzione che ci saremmo salvati: da quel momento, infatti, il Parma giocò meglio. Però, vede, per quanto si possa parlare dei singoli, Frey, Gilardino, Morfeo, Cardone, l'impresa di Bologna rimane figlia della solidità della squadra nel suo complesso».
Sta seguendo il cammino del Parma?
«Lo scorso anno lo facevo di più. Adesso, con gli impegni che si sono moltiplicati, è dura. Ma cerco di tenermi aggiornato. E quando vedo la classifica, spero sempre che possa rimanere tale fino alla fine della stagione. Centrare la promozione dalla B è molto più difficile che fare un campionato di A tranquillo».
Pecchia le piace?
«È il tecnico ideale per questo Parma. Lo conosco bene: a Cremona ha allenato mio figlio. Mi piace la sua idea di calcio, così come l'atteggiamento propositivo delle sue squadre».
Il turno di Coppa Italia propone, ora, la sfida tra Fiorentina e Parma. E lei è un doppio ex.
«La Fiorentina sta crescendo: diamole un po' di tempo e vedrete che tornerà fra le prime quattro. Vincenzo Italiano è un allenatore moderno: non è un caso che abbia giocato nel Verona di Prandelli. C'ero anch'io».
Prandelli che lei ha avuto anche qui a Parma e poi proprio alla Fiorentina.
«Parlare di calcio con lui è sempre stato affascinante. Nel periodo di Parma, soprattutto, lo ricordo come un tecnico all'avanguardia, tatticamente avanti: uno dei più preparati in assoluto in Italia. Prandelli ci faceva già lavorare già sulle ripartenze dal basso. Ed eravamo solo nel 2002...».
© Riproduzione riservata
Gazzetta di Parma Srl - P.I. 02361510346 - Codice SDI: M5UXCR1
© Gazzetta di Parma - Riproduzione riservata