MALTRATTAMENTI E VIOLENZA SESSUALE
Una vergogna uscire con lei. Maria (la chiameremo così), la sua compagna, la madre dei suoi due figli. Eppure passeggiare al suo fianco in città lo faceva sfigurare. «Mi dovrei mettere un sacchetto in testa», le avrebbe detto quando lei insisteva per andare a fare un giro insieme. Insolente. Autoritario. Ma soprattutto violento. Non solo calci e pugni anche davanti ai due figli piccoli. Così aggressivo da pretendere rapporti sessuali anche pochi giorni dopo il parto del secondo bambino. Per sette anni, con qualche tregua che le aveva fatto sperare in un cambiamento vero, Maria si era sentita sopraffatta. Ingabbiata in una storia che l'aveva riportata a rivivere l'angoscia e le paure del primo matrimonio con un altro uomo violento. Ma ieri il nuovo compagno - 33enne, originario dell'Ecuador - accusato di maltrattamenti, violenza sessuale e lesioni, è stato condannato a 5 anni dal collegio presieduto da Paola Artusi, sei mesi in più di quanto richiesto dal pubblico ministero. Eppure, il difensore, l'avvocata Cecilia Schettino, aveva cercato di instillare il dubbio con un'arringa appassionata: «Tutti i testimoni delle violenze sono in Ecuador e lei non è mai andata in Pronto soccorso, tranne l'ultima volta, ma anche lui è stato in ospedale», ha, tra l'altro, sottolineato.
Tutti e due ecuadoregni. Ma le loro strade si erano incrociate qui. Così giovani, poco più che ventenni allora, si erano subito buttati in questa nuova storia, e sei mesi dopo condividevano già una stanza nella casa di una loro connazionale. Anche il primo figlio era arrivato subito, nell'ottobre del 2012. Ma con la gravidanza erano cominciati anche i dissidi. Maria ricorda la prima spinta ricevuta, dopo una discussione, ma non dimentica neanche lo schiaffo che lei gli aveva rifilato: «Ha percepito quel gesto come una mancanza di rispetto e da quel momento ha cominciato a picchiarmi», ha sottolineato Maria nella querela.
Violenze sporadiche fino al 2013. Ma già allora l'avrebbe fatta sentire inadeguata. La colpevolizzava perché non lavorava, eppure quando trovava qualche opportunità, lui si opponeva. Il no dell'uomo geloso. Del compagno-padrone. Ma sacre erano le partite a calcetto con gli amici, dalle quali sarebbe tornato varie volte ubriaco. Così cominciavano spesso le discussioni, e nel 2014 Maria sarebbe stata spinta giù dalle scale.
Anche l'anno successivo, quando erano rientrati per un periodo in Ecuador, si era sentita un oggetto nelle sue mani: lì avrebbe dovuto subire il primo rapporto sessuale contro la sua volontà. Tornati in Italia, Maria aveva cominciato a intravedere un po' di luce. Sembrava che lui si fosse placato. Fino al 2016, quando Maria aveva trovato lavoro in un bar, mentre di notte faceva le pulizie. E lui era tornato quello che era. Possessivo. Autoritario. Fino a quella pretesa sessuale a pochi giorni dalla nascita del secondo figlio.
«Anch'io a volte reagivo, quando lui mi picchiava», ha ammesso Maria. E nel 2019, dopo una nuova aggressione, aveva chiamato per la prima volta i carabinieri. Si sentiva esausta e aveva trovato la forza di cacciarlo di casa. Ma dopo tre settimane («Me l'aveva chiesto mio figlio più grande», ha raccontato) gli aveva riaperto le porte. All'inizio del 2020, però, aveva ricominciato con le sue pretese sessuali, e a febbraio Maria l'aveva colpito, dopo che lui aveva tentato di toccarla.
Non era bastato. Un paio di settimane dopo, il giorno in cui aveva superato l'esame per la patente, avrebbe voluto festeggiare a modo suo. Maria era in bagno e lui si era avvicinato: «”Tu adesso stai con me perché ho voglia”, mi ha detto, poi mi ha preso il braccio e mi ha spinto contro la porta».
L'ultima volta. Nel giro di un giorno Maria si è organizzata: ha nascosto il secondo mazzo di chiavi di casa, inventando una scusa, in modo che lui non lo trovasse prima di uscire. E quella porta, al ritorno, è rimasta chiusa.
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