INTERVISTA
L’ultimo libro della giornalista, scrittrice e conduttrice televisiva Daria Bignardi, «Ogni prigione è un’isola» (Mondadori, pag. 168, euro 18,50) è un’opera con più anime. La giornalista lo presenterà domenica alle 11,45 nella Sala Pizzetti del Paganini Congressi nell'ambito della rassegna «Mi prendo il mondo».
E' un reportage di ottimo livello che evidenzia i problemi reali delle carceri italiane e dei carcerati; è un labirinto di storie amare attinte dalle voci dei detenuti, di patimenti, restrizioni e appelli che stringono il cuore; è un documento umanitario che si traduce in un’inchiesta allarmante a dir poco; è un’introspezione in cui riverberano le tante passioni, furori e scorciatoie della vita che accomuna ladri, rapinatori, poveri cristi, immigrati e tossicodipendenti (che costituiscono i due terzi della popolazione detenuta), mafiosi e camorristi, ma anche idealisti e rivoluzionari, terroristi rossi e neri esponenti della lotta armata degli anni di piombo e delinquenti comuni; e per tutti con sincero interesse l’autrice cerca di fotografare in quei luoghi di repressione più che di rieducazione che sono le carceri, lo spirito della resilienza inasprito dalla mancanza di libertà e lo stigma della rassegnazione. E' un coro di voci tragiche, dissenzienti, un quadro dai colori foschi, un magma ribollente che rende la questione carceraria sempre più esplosiva. Daria Bignardi «bazzicò» le prigioni per anni. «Da ragazzina – scrive – mi appassionavo al Conte di Montecristo o alle Mie prigioni, e a vent’anni ho cominciato a scrivere lunghe lettere a un condannato a morte statunitense»; in carcere conobbe il futuro suocero Adriano Sofri e per il carcere operò al meglio delle sue possibilità anche se – precisa - ora «non provo più nessuna fascinazione per le galere.» Per scrivere questo libro di memorie e riflessioni, si è «rinchiusa» a sua volta in una piccola isola, Linosa, una delle tre Pelagie: «piccola, verde, nera, persa nel mare blu tra Africa e Sicilia», per immergersi nel passato e rievocare un volontariato compiuto dentro le carceri italiane, soprattutto a San Vittore di Milano. L’abbiamo intervistata.
Visitava le carceri con la speranza di contribuire a migliorare la vita dei detenuti?
«Grazie, ma non ho la presunzione di operare per una vita migliore dei detenuti come dice lei, mi limito a raccontare quello che vedo, perché, come scrivo nel libro e come ho detto al dott. C., in prigione c’è la vita com’è, fatta di dolore, ingiustizia, povertà amore, malattia, morte amicizia, rimpianto di una felicità e desiderio di libertà».
Il carcere, cambia in peggio le persone e rischia d’essere scuola di violenza anziché di riabilitazione? Come dice un detenuto, il carcere è davvero lo specchio della società?
«Che il carcere sia lo specchio della società lo dicono detenuti, agenti, direttori, educatori, magistrati, chiunque in carcere ci lavori e ci viva. E purtroppo sì, è anche una scuola di crimine, nella maggior parte dei casi. In tanti raccontano di esserci entrati ragazzi, magari per un pezzo di hascisc o un reato minore, ed essere usciti coi contatti per intraprendere una vera carriera criminale».
Le carceri sono luoghi di disperazione. Lo dimostrano i suicidi sempre più frequenti e numerosi: frustrazione, o anche morire è una forma di protesta contro la reclusione da parte di persone fragili e influenzabili?
«Penso di sì. Quest’anno il numero dei suicidi è impressionante e parla di un disagio insopportabile, di persone malate, tossicodipendenti, con problemi psichiatrici, che in carcere non ci dovrebbero stare. Il mondo fuori non sta molto bene, ci sono sempre più persone povere e malate, e dentro è uguale, solo che si sta ancora peggio».
Nelle prigioni sovraffollate accanto ad ogni tipo di criminalità, la detenzione, può essere davvero sentita come una «vendetta sociale»?
«Di fatto lo è, in queste condizioni. Anche se c’è un sacco di gente, tra le persone che lavorano nell’amministrazione penitenziaria, che cerca davvero di aiutare chi soffre. Ma è il sistema carcere che è guasto, non le singole “mele marce” come sentiamo dire ogni tanto».
Perché non si è mai saputo come sono morti i 13 detenuti durante le rivolte nelle varie prigioni italiane nel 2020 (fra loro Salvatore Piscitelli di Acerra)?
«Ufficialmente sono morti di overdose. Due procedimenti d’inchiesta sono stati archiviati: ora c’è un ricorso in atto alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo».
I casi Cucchi, Aldrovandi, Santa Maria Capua Vetere dove avvenne un vero e proprio pestaggio di Stato, sono metodi disumani costanti o conseguenza, deprecabile ma occasionale, di esasperazione dei secondini, carcerati anch’essi per ragioni di lavoro?
«Credo che anche gli agenti siano vittime di un sistema trascurato e disperato».
Il carcere è davvero inutile come ha asserito Luigi Pagano nato a Cesa in provincia di Caserta, per quarant’anni direttore di varie carceri italiane, da Pianosa alla Sardegna, fino a San Vittore?
«Che il carcere così com’è sia inutile lo dicono i dati delle recidive, che sono circa il 70 per cento. Nelle rare realtà dove le persone ristrette possono imparare un lavoro qualificato la recidiva crolla al 20 per cento».
Il 41 bis: isolare gli elementi ritenuti pericolosi serve davvero a qualcosa o è una delle tante crudeltà carcerarie?
«Molti agenti mi hanno detto che il 41bis è inutile perché “tanto i detenuti possono parlare con l’avvocato”. Altri che è anacronistico. Altri ancora pensano sia servito a far collaborare certi imputati».
Fra i tanti personaggi che ha incontrato nella sua inchiesta, sia ex reclusi ed ex direttori delle carceri, chi più fra loro ha saputo elaborare la vera distanza che il carcere crea con la realtà e trasforma in isole luoghi di espiazione e pena?
«In realtà che ogni carcere sia un’isola me lo ha detto un ispettore, in un carcere del nord. Voleva dire che ogni istituto è diverso dall’altro, un mondo a sé, e che tutto in un carcere dipende dalla direzione e dal rapporto della direzione col comandante degli agenti. Ma anche dal territorio. Le carceri dove i detenuti sono più lontani dalle loro famiglie, o totalmente abbandonati perché stranieri, sono le più tristi».
Francesco Mannoni
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