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Intervista al presidente del gruppo

Pizzarotti: «Nessuna crisi e nessun passo indietro»

Pizzarotti: «Nessuna crisi e nessun passo indietro»

di Claudio Rinaldi

30 Gennaio 2025, 03:01

Presidente Paolo Pizzarotti, la sua impresa ricorre alla composizione negoziata. Perché?

«È la strada più utile ed efficace
per affrontare e superare la situa-
zione di tensione finanziaria che stiamo vivendo. L’obiettivo è tornare al più presto alla normalità. Per una volta che viene messo a disposizione uno strumento utile per le imprese, abbiamo ritenuto che fosse il caso di sfruttarlo: come hanno già fatto altre duemila aziende in Italia».

In cosa consiste?

«La composizione negoziata è un istituto introdotto recentemente nel nostro ordinamento, con il quale il legislatore ha inteso agevolare, attraverso un percorso “in bonis”, il risanamento delle imprese che, pur dovendo affrontare un temporaneo stato di tensione finanziaria, sono nelle condizioni di rimanere sul mercato con risultati positivi. La procedura consente un migliore dialogo tra l’impresa e i creditori, principalmente finanziari, anche grazie all’intermediazione di un esperto che viene nominato da una commissione istituita alla Camera di commercio. Nel corso della composizione negoziata, l’imprenditore può continuare a gestire la propria azienda: è consentita la gestione ordinaria e, previo confronto con l’esperto nominato, anche quella straordinaria. Nell’ambito della gestione ordinaria viene ovviamente privilegiato il pagamento dei fornitori per assicurare la regolare prosecuzione delle attività e dunque dei cantieri. Questo, ovviamente, garantisce la tutela del patrimonio dell’impresa e, quindi, dei creditori».

Che ruolo hanno avuto le banche?

«Hanno preso atto del percorso che intendiamo seguire, ritenendolo utile ad agevolare e rendere maggiormente efficaci le interlocuzioni tra tutti gli stakeholder: potremo negoziare al meglio il nostro progetto di ottimizzazione finanziaria, preservando la piena continuità industriale, a tutela dei dipendenti, dei fornitori e dei partner commerciali».

Il problema nasce da una crisi di liquidità?

«Guardi, solo nel 2024 abbiamo rimborsato alle banche quasi 90 milioni in linea capitale e 25 di interessi. Chiuderemo il bilancio con un fatturato di 1,5 miliardi e un Ebitda di oltre 120 milioni, cioè intorno al 9% del fatturato: un risultato molto lusinghiero. Siamo la terza impresa di costruzioni italiana e abbiamo le massime qualifiche per partecipare alle gare».

Cosa significa, concretamente?

«Per fare un esempio, a fine dicembre 2024 abbiamo ricevuto conferma, da parte di Rfi Spa, che siamo una delle due sole imprese iscritte nell’albo per la realizzazione di grandi opere di ingegneria civile nel settore dei trasporti nella classe 11, quella per importi di oltre 350 milioni, la più alta possibile».

Come mai, allora, è necessario il ricorso alla procedura della composizione negoziata?

«Pur avendo sempre rispettato le scadenze dei rimborsi alle banche, abbiamo chiesto una dilazione di due anni, rispetto al piano concordato che prevedeva di azzerare il debito nel 2026, ma la richiesta è ancora in gestazione. Questo strumento ci consentirà di tornare al più presto alla normalità. Ci sono tante concause, comunque: una, rilevante, è rappresentata dai ritardi del Comune nella soluzione del “caso” del Parma urban district».

In che senso?

«È una lunga storia. Lunga ormai 22 anni. Dal 27 maggio 2003 a oggi ci è costata 94,7 milioni. Molto semplicemente, se l’Amministrazione comunale avesse trovato una soluzione non avremmo dovuto fare ricorso alla composizione negoziata».

Ventidue anni sono un’eternità. E il simbolo del “caso” è rappresentato dall’orribile scheletro ben in vista a tutti gli automobilisti che percorrono l’Autosole.

«Certo. È il biglietto da visita di Parma. Una vicenda paradossale, della quale il gruppo Pizzarotti è vittima».

Può ripercorrere le tappe della vicenda?

«Ci vorrebbe un libro. In estrema sintesi, tra il 2003 ed il 2007 acquistiamo l’area ex Salvarani, per 24,7 milioni circa. Solo nel 2018, esaurito tutto l’iter delle concessioni, diamo il via ai lavori. Ma nel frattempo, tra il 2007 e il 2011, abbiamo realizzato numerose opere di urbanizzazione: la ristrutturazione del Palazzo del Governatore, la realizzazione della sala ipogea di fianco all’auditorium Paganini e della strada complanare che collega il casello dell’A1 con le Fiere, oltre a un viadotto sul torrente Parma. E siamo arrivati a 40,3 milioni spesi».

E poi?

«Nel 2018, subito dopo la concessione dei permessi per costruire, abbiamo ottenuto dalle banche un finanziamento con il quale abbiamo cominciato a realizzare l’intervento spendendo 34,4 milioni tra progetti, opere ed oneri comunali correlati coi permessi di costruire. E siamo a 74,7 milioni complessivi, fino a quel punto. Pochi mesi dopo, il Tribunale ordina il sequestro del cantiere, contestando al Comune di non aver recepito le prescrizioni della nuova normativa dell’Enac che estendeva le fasce di rispetto aeroportuali fino a un chilometro ai lati della pista. La procura apre un’indagine su amministratori e dirigenti del Comune. Sia ben chiaro che né Parma urban district, né i suoi soci o i dipendenti, né qualsiasi soggetto riconducibile alla stessa PUD è stato coinvolto nell’indagine: noi, piuttosto, siamo parte lesa».

E si arriva al dissequestro.

«Sì, nel luglio del ’22. Ma, prima del dissequestro, il Comune approva una variante al “Piano di rischio”, che permette di procedere con la realizzazione del mall. Ma solo in teoria: perché il nuovo Piano impone dei vincoli all’utilizzo, che si commentano da soli. In poche parole, dà il via libera al centro commerciale, ma con un carico antropico – ovverosia il limite di presenze all’interno – di 2.000 persone. Se si pensa che sarebbero stati 1.800 solo i dipendenti dei negozi, si capisce che non è una strada percorribile».

E cosa succede?

«Inevitabilmente si rinuncia al progetto del centro commerciale – e quindi la città perde l’occasione di 1.800 assunzioni a tempo indeterminato – perché non ha più senso né interesse proseguire su quella strada».

Come si arriva al totale di 94,7 milioni spesi?

«Principalmente con gli investimenti, e poi con gli oneri finanziari sostenuti dopo il sequestro dell’area. E il problema è che in febbraio è prevista la restituzione di circa 35 milioni finanziati dalle banche».

Come si può uscire da questa situazione? Nei mesi scorsi avevate tentato la strada dell’accordo di programma, ma il sindaco Guerra l’aveva bocciata.

«È stato aperto un tavolo tecnico in Comune, stiamo dialogando da qualche mese, per ora senza risultati concreti. Eppure, le nostre proposte sono molto concrete: e si potrebbe arrivare a un accordo in fretta. Non solo: l’istanza per la composizione negoziata prevede specificatamente una soluzione al caso del PUD: è quello che ci auguriamo e chiediamo che accada in fretta, visto che i costi sostenuti hanno fortemente condizionato la liquidità del Gruppo. Riteniamo che le nostre proposte possano finalmente condurre a una soluzione tale da consentire di superare l’ipotesi di un contenzioso che sino a oggi abbiamo tentato in tutti i modi di scongiurare, anche per assicurare lo sviluppo del territorio».

Cosa proponete?

«Il progetto che abbiamo presentato prevede una variazione della destinazione d’uso dell’area ex Salvarani, riportandola alla destinazione originaria di area produttiva, oltre alla funzione di servizio per l’adiacente polo fieristico. Per l’area “La porta della città”, quella che va dal centro sportivo di Moletolo alla Baistrocchi, il progetto prevede una molteplicità di funzioni, che garantirebbero una vera rigenerazione urbana del quartiere: dalle funzioni sportive a quelle a servizio dello sport, come un poliambulatorio, uffici e servizi assistenziali, residenze collettive per studenti o per anziani, servizi di commercio di vicinato e attività produttive. La parte commerciale è drasticamente ridotta rispetto al precedente progetto».

Qual è l’iter urbanistico previsto?

«Quello suggerito dal Comune, cioè l’iter ordinario, legato all’entrata in vigore del nuovo Piano urbanistico generale. Il problema è che si attende da molti mesi l’adozione del Piano, e non si muove nulla. È questo il problema: come dicevo, in febbraio il nostro Gruppo dovrà restituire i 35 milioni di finanziamenti ricevuti dalle banche per un progetto che, non per colpa nostra, è “saltato”. Sarebbe stato un intervento molto importante, più di 100.000 metri quadrati coperti. Era stato stimato che il centro valesse 15 milioni di ricavi all’anno per affitti e, quindi, che valesse 250 milioni: è la cifra alla quale lo avremmo poi venduto. Il nostro mestiere è costruire, non gestire le cose che costruiamo».

È davvero convinto che il vostro progetto rappresenterebbe la rigenerazione urbana di cui San Leonardo ha profondo bisogno?

«Altroché. La nostra proposta, tra l’altro, include anche le aree ex Bormioli – di proprietà della Banca Popolare di Milano, con una nostra piccola partecipazione – ed ex Cerve. Entrambe le proprietà hanno già dichiarato di apprezzare moltissimo il nostro progetto. È anche loro interesse che l’area sia riqualificata. Parliamo di un’area importante, pregiata, a due passi dal centro: dovrebbe interessare, prima di tutti, al Comune. E invece, non si vedono soluzioni in vista, ma il tempo stringe. E, intanto, il Comune ci ha fatto un altro “regalo”».

Quale?

«Possediamo un’area alla Crocetta, interclusa tra la tangenziale, l’aeroporto e la ferrovia, che abbiamo acquistato per 10 milioni con destinazione d’uso edificabile. Recentemente, il Comune ha incomprensibilmente manifestato l’intenzione di variare tale destinazione da industriale ad agricola».

Torniamo al piano di composizione negoziata: può tranquillizzare i dipendenti sul futuro dell’impresa?

«Certamente. Ai dipendenti abbiamo scritto una lettera, spiegando che non c’è nulla di allarmante e che torneremo presto alla normalità. L’attività va a gonfie vele. La pista da bob di Cortina procede con anticipo rispetto ai tempi previsti. Il capo del Comitato olimpico ci ha fatto i complimenti: non aveva mai visto realizzare una pista da bob, di così rilevante complessità tecnica, in tempi così brevi. Abbiamo contratti firmati per 7 miliardi di lavori, siamo impegnati in tutti i cantieri della Tav, dalla Brescia-Verona alla Milano-Genova, dalla Salerno-Reggio Calabria ai cantieri in tutta la Sicilia, da Palermo a Catania, a Messina. A proposito di Sicilia, invece, c’è un’altra cosa che mi sta molto a cuore e che vorrei fosse realizzata».

Quale?

«Sfruttare il centro di Mineo, che abbiamo costruito anni fa per la Marina degli Stati Uniti e che oggi è vuoto perché è scaduto il contratto di affitto. Il centro può ospitare 3.000 persone, è stato utilizzato anche per accogliere gli immigrati. Noi abbiamo fatto una proposta interessante al governo: utilizzarlo per ospitare gli immigrati e formarli. È questa la strada da seguire, peraltro non incompatibile con la soluzione perseguita dal Governo attraverso gli accordi con l’Albania. La nostra proposta punta sulla formazione, ci siamo anche impegnati ad assumere 400 persone all’anno, dopo la loro formazione. Lo ripete sempre anche il presidente di Confindustria Orsini: in Italia mancano100.000 lavoratori. E allora, dico io, cosa c’è di meglio di sfruttare un’area di 25 ettari, con 70.000 metri quadrati coperti con case a schiera, e con mensa, impianti sportivi, tutti i servizi necessari?».

Cosa vi ha risposto il Governo?

«Qualche lettera, qualche incontro, ma molto fumoso. Hanno in mente solo la deterrenza, sotto sotto pensano “quelli che arrivano li mandiamo in Albania, così non ne arrivano più”. Pia illusione. Penso che la classe politica – e mi riferisco a tutti, da sinistra a destra – dovrebbe avere più attenzione verso la classe produttiva di questo Paese».

Siete un’impresa familiare dal 1910: continuerete ad esserlo? C’è anche chi parla di un possibile passo indietro.

«Non scherziamo. La mia famiglia è sulla tolda di comando da 115 anni e vuole restarci per altri 115 anni. Sono molto sereno».

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