Il racconto del carabiniere che ha soccorso Safwa
«Quando siamo arrivati in borgo Bertani sapevamo pochissimo: solo che una donna era a terra, ferita. E che accanto a lei c'era un coltello».
Il carabiniere Ivan Mangione, in servizio alla caserma di Roccabianca, rimette in fila i fotogrammi dell'altro giorno. Facile fare una previsione: quello che ha visto e provato la mattina di venerdì se lo rivedrà passare davanti agli occhi ancora a lungo.
«Io e il collega siamo saliti al secondo piano e abbiamo visto, in effetti, la donna a terra con una seconda persona che cercava di fermare il sangue. E ci siamo precipitati nella stanza». Un gesto istintivo. Ma un carabiniere sa che il coraggio, la generosità sono fondamentali. Ma che occorre anche riflettere.
«Dovevamo provare a salvare la vittima ma nello stesso tempo mettere in sicurezza la zona, prevenire rischi per le persone presenti». Si, perché, in quel momento, ancora non si sapeva nulla, nessuno aveva capito chi avesse colpito quella donna e dove fosse il responsabile. Mentre quel fiotto rosso continuava a sgorgare.
«Per prima cosa ho cercato di tamponare la fortissima emorragia: la ferita più importante era al torace e ho cercato di bloccare il più possibile la perdita di sangue – prosegue il militare che appartiene alla compagnia di Fidenza. - Nello stesso tempo ho fatto di tutto per farla parlare, per impedire che perdesse i sensi e restasse vigile».
Non è mai facile: in quel caso era una sfida tremenda con una persona ferita e sotto choc dopo essersi vista trafiggere dal marito. E che per di più non parla l'italiano. «Si lamentava, gemeva, e io continuavo a rivolgermi a lei cercando di farla restare vigile anche se, ad intervalli, sembrava perdere i sensi», spiega il carabiniere che, come tutti coloro che indossano la sua divisa, ha seguito un corso di primo soccorso, ha imparato a tenere a bada le emozioni. E forse, in casi del genere, questa è la cosa più difficile.
Sono stati momenti terribili e lunghissimi: per quasi un quarto d'ora il militare ha lottato con tutte le sue forze. Sia pure con tutta la dolcezza possibile. «Alla fine sono arrivati gli uomini del 118 e allora mi sono dedicato a raccogliere le informazioni utili per cercare di capire cosa fosse accaduto in quella casa».
Occorreva trovare i nomi della donna ferita e degli altri abitanti di quell'appartamento, provare a dare un senso a quella emergenza. «Nel giro di qualche minuto ho passato alla centrale operativa le informazioni». Anche se molto, in quel momento, non si poteva ancora sapere. E neppure immaginare. «Ero a conoscenza del fatto che poco lontano c'era stato un grave incidente ma nessuno era in grado di collegare i due eventi. Ho cercato documenti, cartelle cliniche, appunti. Perché le persone presenti non erano in grado di aiutarci». Un po' i problemi di lingua, molto il fatto che tra vicini ci si limita ad un saluto e poco più.
«Ma alla fine abbiamo raccolto dei dati che abbiamo trasferito e che sono serviti a permettere di collegare il ferimento e il frontale». E il quadro di quella emergenza è allora apparso in tutta la sua crudele chiarezza.
«A ripensarci adesso posso dire di avere solo fatto il mio dovere: ma non di carabiniere ma piuttosto di uomo. Aiutare gli altri è un dovere di tutti», prova a svicolare prima di salutare, prima di tornare al servizio quotidiano nelle strade della Bassa.
«Se io abbia contribuito a salvarle la vita non lo so: ma ho fatto la mia parte». E' bello pensare che Safwa, tra un po' di tempo, quando le ferite saranno rimarginate, potrà incontrerà il carabiniere Ivan Mangione sotto i portici di San Secondo. E allora e si potranno stringere la mano. Se lei ancora non avrà imparato l'italiano poco conta. A volte per dire grazie non serve neppure parlare.
lu.pe.
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