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C'era una volta

Natale parmigiano, dizionarietto delle antiche tradizioni

di Lorenzo Sartorio

12 Dicembre 2025, 12:35

Per i nostri vecchi il tempo di Natale iniziava dopo «San Martén», l’11 Novembre, scadenza chiamata in gergo contadino « la porta äd l’invèron». Da quel momento molto significativo, ma a volte anche triste e drammatico per la nostra gente dei campi costretta a lasciare casa e terra a causa della disdetta data dal padrone del sito, iniziavano, per il «rezdór» e la «rezdóra», le varie liturgie nei campi, nelle stalle, nei pollai e nelle cucine per affrontare al meglio le festività natalizie con tutti i loro riti, le loro ataviche tradizioni ed i loro momenti magici. Ed allora, perchè non raccontare, raggruppandole in ordine alfabetico, le varie tradizioni delle feste più sentite dell’anno attraverso un parmigianissimo dizionarietto natalizio?

A ALBERO DI NATALE: un tempo, nei paesini del nostro appennino, era diffusa l’usanza di tagliare una piantina di ginepro ed agghindarla molto spartanamente con lustrini, carta stagnola, castagne secche e qualche caramella. In città, invece, i piccoli pini che, una volta portati a casa emanavano un magico profumo di resina, venivano venduti da ambulanti che collocavano i loro banchi sullo Stradone ( angolo Strada Farini), davanti al Teatro Regio ed in Piazzale Santa Croce dove Francone Dodi, l’indimenticabile gigante buono «de dlà da l’acua», esercitava questo lavoro stagionale.

ANOLINI: in città le ricette mutano da zona a zona, addirittura da quartiere quartiere, di famiglia in famiglia. Circa il ripieno, la parmigianità oltretorentina rivendicava come «parmigiano doc» quello con lo stracotto di asinina ( «pjén d’aznén’na») che vantava due vestali, la Lina e la Rosetta, rispettivamente titolari delle antichissime macellerie equine di Via Farnese e Via Maestri. Invece, il ripieno della bassa, non preveda la carne ma solo pane imbevuto nel sugo ristretto dello stracotto, noce moscata e tanto formaggio stravecchio, mentre nelle terre alte c’era l’usanza di fare il ripieno con la carne di manzo, vitello e maiale.

B BESTIE: la notte della Vigilia era «magica» anche nella stalla. Alle bestie veniva dato il fieno migliore. Quindi «al vacär» aveva cura di chiudere bene la porta per lasciarle in pace in quanto, era credenza diffusa, che esse parlassero tra loro. Al cane e al gatto veniva cotta la zuppa nell’acqua della pasta fatta in casa per la cena della Vigilia.

C CEPPO: davanti al ceppo ( «sòca») nelle famiglie della nostra montagna si attendeva la mezzanotte. Il focolare veniva acceso con un rametto di ginepro considerato una pianta magica in grado di tenere lontano gli spiriti maligni e le malattie. La «sòca» doveva essere di quercia o frassino perchè doveva durare a lungo e cioè tutto il tempo di Natale. Il ceppo veniva acceso dal capofamiglia ed il fuoco che sprigionava era inteso come la vittoria della luce e del calore sulle tenebre e sul gelo, proprio per esorcizzare il lungo inverno. Anche se un saggio adagio contadino, temendo le bizzarrie della primavera, suggeriva: «chi gh' à 'na sòca in-t-al cortil ch’a l la spära( (risparmi) par märs e avril». La cenere della «sòca» veniva conservata e gettata sui campi in segno di benedizione e di augurio di messi abbondanti.

D DONI: i bambini si dovevano accontentare. I più fortunati, alla mattina della ricorrenza Santa Lucia (13 dicembre), potevano trovare qualche balocco di legno o di latta. E poi: torroncini, caramelle, castagne secche, uvetta e l’immancabile «mandarén».

E EPIFANIA: la Befana non era così «ricca» come Santa Lucia quindi i bambini si dovevano accontentare di quello che la vecchietta riponeva nella calza appesa al camino. Nella notte dell’Epifania si accendevano falò per festeggiare il sole che stava acquistando forza e vigore e, attorno alle piante da frutto, nel parmense si cantilenava «fazàgna, fazàgna tutt’ i bròch ‘na cavàgna. Fazàgna fazagnón tutt i bròch un cavagnón» per propiziare un raccolto abbondante. Mentre i giovanotti del paese intonavano l’insolente stornellata: «se la rezdóra la 'n fa mìga i tordè a gh’ nasrà i polàstor sénsa pè».

F FIORI E PIANTE AUGURALI: erano ritenuti fiori e piante beneauguranti il ginepro, l’agrifoglio ed il vischio che veniva venduto dagli ambulanti sia verde che dorato.

G GUARITRICI: le notti della Vigilia (solstizio d’inverno) e di San Giovanni (solstizio d’estate) erano ritenute magiche dalle «medgón’ni» o «donne dei segni» che confezionavano le loro misture per segnare tutti i mali. E, proprio nella magica notte della Vigilia di Natale, le medicone vecchie confidavano i loro segreti alla prescelta, ossia quella donna che, secondo l’intuito delle vecchie guaritrici, possedeva le loro stesse doti.

I INSALATE: rappresentavano il tradizionale contorno della cena di magro della Vigilia. Solitamente l’insalata era di bietole rosse («biede»), «pèr nobil» condite con olio e aceto, verza e cavolfiore o «ravisi amäri bojùdi e consädi con 'na polèssa d’aij». Mentre l’insalata bianca (che veniva conservata in cantina al buio affinchè divenisse sempre più bianca) si serviva il giorno di Natale di contorno agli arrosti.

L LETTERINE: venivano scritte dai bambini ai genitori e poi poste sul piatto la sera della Vigilia. Erano delle più diverse fogge: con i lustrini, ricamate, oppure con un soffietto di carta che, tirando una linguetta, metteva in evidenza l’immagine del Bambino Gesù, della Sacra Famiglia, dei Magi o della Capanna.

M MUSCHIO: la magia del presepe era affidata alle grotte fatte con la «marogna» e ai prati di muschio («barbasèn’na») che in montagna si trovava sotto i castagni mentre, nella Bassa, cresceva nei fossati. In città, invece, il muschio, quello vero, lo si poteva trovare nelle cartolerie Gialdi di Via XXII Luglio e delle sorelle Teresina e Valentina Bocchialini in Via Nazario Sauro.

N NOTTE: è la più magica ed arcana per eccellenza. La famiglia, per la Vigilia, si riuniva accanto al camino, si consumava la cena di magro con piatti che si tramandavano da generazioni. Tutti i cibi, nella notte solstiziale della Vigilia, sprigionano un profumo ed un gusto particolari. Il giorno dopo non sono più gli stessi.

O OLI FRÚSST: serviva ad alimentare la «lùmma» (lanterna), in campagna ed in montagna, portata a mano dai più anziani mentre si recavano con la famiglia alla messa di mezzanotte.

P PRESEPE: veniva preparato durante l’Avvento dai bambini e dal «nonón» che procurava la marogna e il muschio e faceva le casette intagliando legno e sughero, mentre il più piccino deponeva, la notte della Vigilia, la statuetta del Bambinello dentro la Capanna.

Q «CUAND (quando) Nadäl al vén in doménica, tò al sach e va par mèllga; e po torna lì fin ch’al
torna in venardì». (Antico proverbio montanaro).

R ROSARIO: dopo la cena della Vigilia era usanza ricordare i propri defunti recitando il rosario alla presenza di tutti i familiari. Anche gli uomini, una volta tanto, partecipavano silenziosamente.

S SPONGATA: tipico dolce natalizio. Di origine lunigianese, la spongata, si diffuse anche nel parmense sia in montagna (Corniglio-Berceto) che nella bassa parmense e reggiana (Busseto e Brescello). Nelle antiche famiglie parmigiane ed anche del contado spettava al «rezdór» preparare il ripieno molto in anticipo, addirittura nella notte della festività dei Santi, per poi lasciarlo riposare fino a qualche settimana prima di Natale. Alla «rezdóra» poi il compito di fare la pasta. Abilissimi nel fare le spongate erano i monaci di San Giovanni i quali potevano disporre dell’eccezionale miele del loro apiario ricavando i prelibati «Spongatini dell’Aquila», così chiamati dall’Aquila simbolo dell’Evangelista

T TOMBOLA: dopo il rosario si ingannava il tempo con la tombola fino alla mezzanotte. Chi vinceva si aggiudicava una manciata di castagne secche o un mandarino. I numeri nelle varie cartelle venivano segnati con bottoni vecchi o fagioli secchi.

U UVA: era molto utilizzata in cucina per i dolci. Indispensabile per la spongata, alcuni la mettevano anche nella pattona. Nel cenone dell’ultimo dell’anno era consigliato mangiare qualche chicco d’uva che avrebbe «portato soldi». Se fosse bastato questo… !!!

V VEGLIE: logicamente la più sentita era quella della Vigilia. Dopo la cena di magro (in città, maltagliati o tagliatelle conditi con burro e formaggio e l’ultima forchettata spruzzata con una lacrima di vino, «pasta in vén», seguiti da «marluss fritt e in bjanch», nella bassa tortelli di zucca, in montagna pasta con sugo di funghi o tortelli di patate e porri) i «cazànt» si riunivano in casa dell’uno o dell’altro per la tombola. In campagna non si andava nella stalla per il fatto che la cucina, una volta tanto, era riscaldata bene e le bestie dovevano essere lasciate sole a «parlare tra loro». La tavola rimaneva apparecchiata perché si credeva che i cari defunti, alla notte, riprendessero il loro posto come anche nella notte dei Morti. Veniva conservato anche il pane perché, sfiorato dagli Angeli nella Notte Santa, sarebbe servito durante l’anno agli ammalati. Il «rezdór», dal canto suo, girava tutti gli angoli più reconditi della casa con un rametto di ginepro con l’intento di scacciare gli spiriti maligni.

Z ZAMPOGNARI: in città giungevano dall’Abruzzo, dal Lazio e dalla Toscana alcuni giorni prima di Natale e, nelle strade del centro (Piazza Garibaldi, Via Cavour e Via Farini) sotto sera, allietavano le compere con il caldo suono delle loro pive che profumava di semplicità e di Natale.

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