INTERVISTA
Se il rapporto tra insegnante di musica e allievo è sempre delicato, le cose si complicano ulteriormente quando si tratta di canto: non è la stessa correggere qualcosa che ha a che fare con uno strumento estraneo, rispetto a una caratteristica intima come la voce. Donatella Saccardi, docente di Canto lirico al Conservatorio «Boito» di Parma, si è sempre data molto da fare per i propri studenti, sia con progetti in collaborazione con il Teatro Regio, come «Imparolopera», sia con attività come la stagione lirica del Teatro Crystal di Collecchio.
Come si è avvicinata al canto?
«Fin da bambina mi dicevano che avevo una voce molto bella e anche alle elementari le maestre mi facevano sempre cantare. Quando avevo tredici anni sono entrata nella Corale Dallapina di Collecchio dove sono rimasta per quattro anni. A uno degli ultimi concerti il padre di Francesco Baroni che mi aveva accompagnata come solista insistette che mi facessi ascoltare in Conservatorio. Non conoscevo molto la lirica, un po’ tramite la corale, ma ero curiosa e decisi di fare l’audizione. Guarino, il direttore, mi diede il nome di Wilma Colla perché secondo lui era la maestra giusta per me. Da quel momento ho iniziato a frequentare il teatro, ad ascoltare musica e dischi. A ventun anni ho vinto nel concorso di Spoleto e ho debuttato nell’Oberto. Non ho fatto una lunga carriera, avevo molto talento, la mia voce era bella e la mia maestra mi aveva insegnato molto bene, ma non ero molto portata a livello caratteriale: non ero paurosa, ma non mi andava bene sottostare a tante dinamiche».
Come si è avvicinata all’insegnamento?
«È successo per caso e forse ho fatto bene. Avevo fatto domanda per “insegnamento”, come l’hanno fatta tutti i musicisti a un certo punto della vita, e c’era bisogno ad Alessandria dove avevano aperto una nuova classe. Falavigna, che era stato mio maestro, era direttore là e aveva insistito molto perché provassi questa esperienza, dopo che ero risultata idonea. Evidentemente la vita ha deciso anche per me e ho sempre avuto degli ottimi risultati e mi sono anche divertita. Mi piace molto lavorare con i ragazzi».
Quali sono le soddisfazioni più grandi dell’insegnamento e quali le sofferenze?
«Cantare è un po’ come essere messi a nudo. Non dico che l’insegnante debba essere un po’ “mamma”, ma bisogna capire gli allievi ed essere psicologi. Adesso sento questa cosa molto più di prima. Cerco di aiutare le persone che cantano a lasciarsi andare: se si cominciano a mettere delle barriere tutto diventa molto difficile. Questo è molto bello e ti permette di avere dei rapporti di affetto e amicizia: ho delle amiche strettissime che sono state mie allieve. Il boomerang, quando hai questo tipo di approccio, è che si rischia di essere feriti: non che ci sia ingratitudine, ma avviene come nell’adolescenza quando il figlio vuole fare da solo e uccide metaforicamente la mamma e il papà. Queste cose fanno comunque parte del percorso. Io sono stata molto fortunata perché ho sempre avuto molti italiani in classe che arrivano molto piccoli e si possono vedere crescere».
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