Poco più di cento pagine: densissime, impregnate di savana, destini e scrittura. L'inchiostro che si fa sguardo largo. Tramonti infuocati, tra masai e storie che da Parma rimbalzano - nel tam tam della narrazione - tra Burkina Faso e Kangata. Due racconti di viaggio, due incontri (B&B: una donna inquieta e speciale, Ketty Bonazza; e un'ombra che rilancia mille interrogativi, l'esploratore parmigiano Vittorio Bottego). Due lunghi reportage - con il passo e lo stile del racconto - firmati a metà degli anni '80 da Antonio Mascolo e pubblicati sulla Gazzetta diretta all'epoca da Baldassarre Molossi.
I testi sono ora riuniti nel volume intitolato «Ketty Bonazza la regina d'Africa - Sulle orme di Bottego», edito da Libreria Ticinum.
Come sei arrivato a rintracciare un personaggio da film come la regina d'Africa e cosa dicesti al direttore della Gazzetta Baldassarre Molossi per convincerlo a mandarti in Africa sulle sue tracce?
La storia di Ketty Bonazza me la raccontò il fotografo Franco Furoncoli, (a cui è dedicato il libro - assieme al povero Piero Amighetti - ). E tanto bastò per precipitarmi da Sarre quasi certo che di fronte ad una storia inedita e di tale bellezza avrebbe accettato la mia proposta: ''io vado in ferie e la Gazza paga le spese..''. Come fece lui a convincere gli editori, questo forse è il vero mistero ...ma Molossi era davvero capace di miracoli. Si quella di Ketty Bonazza è una storia pazzesca, mi piacerebbe saper fare il regista per creare un film o uno sceneggiato. C'è quell'Africa fantasma alla quale si si è dedicato Leiris, quella scomparsa che ha le tinte dei viaggi alla Chatwin, l'Africa talmente dura da essere democratica con quasi tutti...
L'altro testo riguarda invece Bottego, eroe discusso, personaggio sempre più dimenticato
Non so se Bottego sia stato un eroe. Di certo oltre al colonialismo, ai massacri conseguenti, ha rappresentato lo spirito d'avventura. Le sue carte geografiche erano precise al centimetro, erano quelle etiopi od occidentali a sballare anche di km. Dal punto di vista delle scoperte geografiche non aveva nulla da invidiare a Stanley o Livingstone. Di lui mi piace una frase: "E' meglio rischiare per riuscire qualche cosa che rassegnarsi a vivere come un albero". Curiosa anche la storia del monumento a Bottego in stazione: non l'hanno ancora abbattuto i movimenti antirazzisti, ma forse ha subito di peggio, nel 2014 è stato girato facendo scambiare Oriente ed Occidente, sguardo e accoglienza, senza dire nulla allo.... Ximenes.
Come faceste ad organizzare la spedizione in occasione dei novant'anni della morte di Bottego?
E' stato un lavoro certosino di mesi, svolto da Piero Amighetti creatore della rivista Trekking. Vennero coinvolti Cassa di Risparmio, Comune (che ci diede una targa da piantare sul Daga Roba, il luogo della morte del Capitano), l'Università con Vittorio Parisi, sponsor vari, lo studioso Manlio Bonati. La Ferrino ci diede le tende, la Scarpa le scarpe e una ditta di Verona delle alghe in pastiglia per sconfiggere la fame durante le marce. La Rai mandò una troupe guidata dal regista Leandro Lucchetti (il filmato fu poi proiettato al Centro Cavagnari nel 1988). Giù ci attendeva Giovanni Dardanelli che poi è diventata una sorta di mito delle guide turistiche italiane. E anche lì Molossi non fu da meno, mi mandò e mi assicurò come i grandi inviati per un miliardo contro ogni tipo di calamità o disastro o accidente. Fummo sequestrati per tre giorni dall'esercito di Menghistu, ma tutto andò bene.
Esiste il Mal d'Africa fra i giornalisti?
L'Africa è sempre stata nelle corde dei giornalisti parmigiani. Da Bruno Barilli, a Ubaldo Bertoli, a Luca Goldoni, alla Sidi Bel Abbes raccontata da Bernardo Valli, a Bruno Rossi a Giorgio Torelli ai Gualazzini, padre e figlio. Ma poi è uguale per il Sud America di Chierici o per la tua Cuba. Io credo che raccontare l'altro e l'altrove sia una delle malattie contagiose del giornalismo. La sfida, il matrimonio tra locale e internazionale, tra sogno e realtà.
Come è nata l'idea del libro?
Questo libro è frutto delle ricerche e delle attenzioni di Guido Conti che durante la scrittura di quella Bibbia che è la sua «La città d'oro» si è imbattuto nei miei due reportage pubblicati sulla Gazzetta di Parma (ndr: quello su Ketty Bonazza approdò poi sull'Europeo) ed ha voluto farne assolutamente un volumetto per la Ticinum. Per farlo arrabbiare gli dico che mi fa sentire postumo, che ha fatto quasi un libro a mia insaputa. Ed ha anche voluto alcune fotografie scattate 33 anni fa durante quei viaggi.
Andare, vedere e raccontare. Può essere una buona ricetta anche per il giornalismo di domani?
Dobbiamo riprenderci l'attenzione che le nuove tecnologie ci stanno togliendo. Dobbiamo riassaporare i tempi più lunghi delle storie, delle tinte. Si credo molto nelle storie, non raccolte al telefono. Credo che andare, vedere e raccontare è un bisogno antico che abbiamo dentro e che ha anche il lettore.
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