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Una vita da inviato

Antonio Ferrari «Da 50 anni racconto guerre e terrorismo»

Al «Corriere» dal 1972. Ha intervistato 800 leader «Il mestiere di giornalista non morirà mai»

antonio ferrari

di Claudio Rinaldi

11 Luglio 2022, 10:47

Cinquant'anni al «Corriere» sono un bel traguardo. Cinquant'anni di articoli da ogni angolo del mondo, reportage, inchieste, editoriali, interviste ai potenti, dai presidenti degli Stati Uniti (sette) o della Francia (tre) ai Papi (quattro), dai politici ai dittatori (in tutto, fanno ottocento leader!). E una “specializzazione” sul Medio Oriente e sul terrorismo, italiano e internazionale, che ha pochi eguali. Per non farsi mancare nulla, anche quattro anni vissuti sotto scorta: troppo rischiosa la vita, per un giornalista che ha messo ripetutamente il naso in affari loschi e intrighi, congiure e attentati di ogni tipo.
Antonio Ferrari oggi ha 75 anni, ma non ha la minima intenzione di fare il pensionato: i suoi video-editoriali, su Corriere.it (Voci dal vicino Oriente), registrano ogni settimana numeri crescenti di clic. «Di una cosa sono certo, dopo tanti anni di professione – dice lui –. Cambiano i mezzi con i quali si raccontano e commentano le notizie, ma il mestiere di giornalista non morirà mai».

Modenese di nascita, cresciuto a Genova, milanese d’adozione dal giorno dell’assunzione al «Corriere» e, da 43 anni, cittadino ateniese, per comodità prima e per amore poi. «È stato il “Corriere” a propormelo: andavo in continuazione in Medio Oriente, ogni volta dovevo andare da Milano a Roma, perdere dei giorni in attesa del visto, poi fare due-tre scali per raggiungere la destinazione: mi hanno preso un appartamento a Atene e mi sono trasferito. In meno di due ore arrivo ovunque, da Israele al Libano, dalla Siria alla Turchia, dall’Iran all’Iraq. Poi ho anche trovato moglie (Maria Kakridi, docente di Glottologia e Sociolinguistica all’Università di Atene, ndr). E tutt’ora a Atene sto come un papa».

IL LEGAME CON PARMA

A Parma, dove è venuto in visita nei giorni scorsi, con una lunga tappa in «Gazzetta», è affezionato da sempre: qui il padre Vittorio si è laureato in Giurisprudenza, qui è sepolto lo zio Luigi Ferrari, saveriano. Qui sono nati non pochi giornalisti che hanno scritto un bel pezzo di storia del «Corriere», e non solo, e con i quali ha condiviso infinite avventure professionali, in via Solferino e in giro per il mondo: da due autentici giganti come Egisto Corradi e Bernardo Valli a Bruno Rossi e Maurizio Chierici, per fare qualche nome. Solo una cosa, delle nostre parti, lo rattrista: la vicenda del premio “La Quara”, che lo ha prima fatto innamorare di Borgotaro e poi gli ha procurato una ferita tutt’altro che rimarginata: «Per otto anni, ho messo grande impegno in questo premio letterario, ho portato personaggi straordinari al Borgo, ho fatto pubblicare tutti i racconti vincitori sul “Corriere”. Poi hanno provato a farmi passare per un vecchio che perde colpi: non ci ho visto più, mi sono dimesso. Va da sé che il “Corriere” non è più interessato al premio. Peggio per loro. Però queste piccole invidie provinciali mi hanno davvero fatto male».

LA CARRIERA

Da bambino vive a Genova, dove il padre Vittorio fa l’avvocato e il giornalista (dirige il «Corriere della Liguria», fondato dagli alleati dopo la guerra), ma solo per breve tempo, perché muore a 39 anni, mentre stava per passare al «Secolo XIX» come capocronista, quando la moglie ne ha 38 e Antonio 8, con un fratello e una sorella più piccoli di lui. Negli anni del liceo bussa alla porta della redazione del «Secolo XIX», direttore è Umberto Vittorio Cavassa: lo ingaggiano come collaboratore e lo mandano al porto, a registrare arrivi e partenze. Nel ’68 arriva Piero Ottone. «”Dove sono i giovani, qui?”, ha chiesto, appena si è insediato, vedendo una redazione di anziani. Eravamo in tre ragazzi di bottega: ci ha assunto come praticanti tutti e tre. Mi ha chiesto se mi interessassero gli spettacoli. “Direttore, faccio tutto quello che mi chiede”».
Intanto continua a studiare, si laurea in Ingegneria. «Un periodo di prova, poi sono stato promosso caposervizio, per “ringiovanire” le pagine. Andavo al Festival di Sanremo, a Canzonissima, mi divertivo come un matto, gomito a gomito con Domenico Modugno e Lucio Dalla, Iva Zanicchi e Sergio Endrigo».

Nel ’72 Ottone viene chiamato a dirigere il «Corriere», al posto di Spadolini. E qui, nella vita e nella carriera di Ferrari, irrompe la figura di un altro pezzo di storia del «Corriere», Luciano Micconi da Zibello, leggendario segretario di redazione, all’epoca capo degli Interni. Dice a Ottone che vuole cambiare il corrispondente da Genova, ha seguito sul «Secolo» «questo giovane Ferrari che promette bene». Con Ottone sfonda una porta spalancata. Il direttore lo convoca a Milano e lo porta al bar “Tumbun de San Marc”, vicino a via Solferino («Ogni tanto ci torno ancora adesso, per nostalgia»), poi pranzo con Micconi. Affare fatto. Qualche mese più tardi si libera un posto da redattore e Ottone gli propone l’assunzione. «Sarei andato a Milano a piedi, che discorsi. Al “Corriere” non si può dire di no. Mai». «Il ricordo del primo giorno? Giulia Maria Crespi che scende le scale, viene a darmi il benvenuto. Siamo rimasti amici, per via del suo impegno per il Fai».

IL TERRORISMO, TOBAGI, LA P2

Viene assegnato alla redazione Interni, con la promessa della qualifica da inviato. Micconi lo manda in giro ovunque, a caccia di notizie e di storie, le telefonate nel cuore della notte sono la norma. «Vai subito a Padova», o a Roma, o a Palermo. O a Genova, come il 28 marzo 1980, per la strage di via Fracchia. «Sono andato con Walter Tobagi e Giancarlo Pertegato. Walter era un mio carissimo amico, seguivamo entrambi il terrorismo e spesso lavoravamo in coppia. Così simili, così diversi: stessa passione per il mestiere. Ma lui molto serio, rispettoso dei ruoli, gran brava persona. Io un po’ scavezzacollo. In quel periodo era molto turbato, mi fece delle confidenze inquietanti. Mi viene la pelle d’oca ancora oggi. Fiutavamo un’aria, in via Solferino, che non ci piaceva. Il 28 maggio Walter è stato ucciso. Poco dopo sono spuntati gli elenchi della P2. E trovarci tanti nomi illustri del “Corriere” mi faceva, e mi fa ancora oggi, male al cuore: c’erano il proprietario, il maggiore finanziatore, il direttore, articolisti illustri. Tutti andati a inginocchiarsi davanti a quel criminale di Licio Gelli».

DIECI GUERRE

Un giorno Alberto Cavallari, subentrato a Di Bella proprio dopo lo scandalo della P2, chiama Ferrari e gli dice: «Con il terrorismo hai rotto, vai un po’ a riposarti, vai a Beirut». «E ha aggiunto una cosa che mi ha fatto molto piacere: “Tu hai una capacità che mi ha sempre affascinato: sai inquadrare la storia e prevederne gli sviluppi”». Finisce che segue dieci guerre.
Al «Corriere» ha avuto nove direttori: i citati Ottone, Di Bella e Cavallari e poi Piero Ostellino, Ugo Stille, Paolo Mieli, Ferruccio de Bortoli, Stefano Folli e Luciano Fontana. «de Bortoli qualche volta è venuto con me, quando andavo all’estero a intervistare grandi personaggi. Da Bashar al-Assad, il presidente della Siria, figlio di Hafiz. E poi da Ariel Sharon, che dopo essere diventato primo ministro israeliano ha concesso a me la prima intervista internazionale: una grande soddisfazione. Credo che Ferruccio sia rimasto abbastanza sorpreso nel vedere come ero grintoso, nel porgere le domande. “Lei lo sa – ho esordito con Sharon – che l’ho attaccata duramente?”, e via a citare alcune delle sue decisioni che avevo criticato. E Sharon: “Lo so. Ha fatto bene. Quella volta ho sbagliato, lo ammetto”».

L’ORDINE DI ERDOGAN

Quattro volte a tu per tu con Erdogan. «Imparando che, con lui, bisogna sempre stare attenti. C’è sempre un “ma”, con Erdogan. Prendi il ritiro del veto per l’annessione di Svezia e Finlandia alla Nato: sulle prime sembra un gesto nobile, intelligente. Ma c’è un “ma”. Una volta, durante una conferenza stampa, si è scaldato parecchio, urlando che Öcalan e quelli del Pkk erano tutti terroristi, e ha detto ai giornalisti, con un tono che non ammetteva repliche, “dovete scriverlo”. Io sono sbottato, “Non prendo ordini dal mio direttore, si figuri se li prendo da un politico come lei”, e ho acceso una sigaretta. Lui si è calmato, poi mi ha detto: “Deve smettere di fumare, le fa male”. Un anno dopo ho seguito il suo consiglio. Una delle poche cose giuste che ha detto in vita sua».

I PRESIDENTI DEGLI STATI UNITI

Jimmy Carter gli ha insegnato che non è vero che il presidente può decidere tutto quello che vuole («Il suo potere più grande è nominare il ministro degli Esteri e gli ambasciatori», mi ha spiegato). Trump è stato «il peggiore», dice senza esitazioni: «Una pessima figura, un uomo legato solo ai soldi e ai suoi interessi personali. Uno che ha tradito la patria». A Bill Clinton ha fatto una domanda «da monello»: «L’ho guardato negli occhi e gli ho detto: “Ma lei non aveva capito che Monica Lewinsky era una spia del Mossad?”. Mi ha risposto allargando le braccia, come a dire “l’uomo non è di legno”». Reagan? «Una persona molto semplice, ma non stupido. E aveva l’umiltà di fidarsi dei suoi collaboratori. Un giorno, appena scoppiata una guerra in Egitto, ha chiamato il segretario di stato Schultz: “Dov’è l’Egitto? Mostramelo sulla cartina”». Biden? «Ho una grande stima per lui. È un democratico vero, uno che antepone a tutto il dialogo, come è giusto».

IL COMUNISMO

«Mai sopportato i regimi. Ho capito cos’era il comunismo da ragazzo, quando mi sono innamorato di una cecoslovacca. Andavo da lei a Bratislava: e quando tornavo in Italia la convocavano, le facevano mille domande. Comunismo uguale ossessione, controlli esasperanti. Mai votato comunista. Però ho votato Berlinguer, perché era una brava persona, una mente libera. A ben pensarci, non era nemmeno comunista».

«Guarda, io non ho mai avuto paura di niente. Però, devo ammetterlo, se mi fossi trovato in un ufficio del Kgb e un funzionario alla Putin mi avesse detto “Sappiamo tutto di te”, probabilmente mi sarebbero tremate le gambe. Sono anche andato a consultare gli archivi della Stasi, a Berlino, e ho cercato le cose che riguardavano l’Italia. Ero citato anch’io: perché qualche volta avevo attraversato il muro. Ho cercato Angela Merkel: nulla. Quando l’ho conosciuta gliel’ho chiesto: “Mi sa spiegare perché ci sono dieci righe su di me e neanche una su di lei?”. “Io sono sempre stata ligia alle regole”».

I GRANDI MAESTRI

Gli parli di Bernardo Valli e si commuove. «Che persona, che giornalista. Straordinario. Unico. Un maestro, sul lavoro e nella vita. Una volta mi ha detto che mi seguiva e che mi stimava. “No, no, Bernardo – l’ho fermato, imbarazzato – non dirmelo. Sono io che stimo infinitamente te”. Ci siamo conosciuti a Gerusalemme – e anche questo la dice lunga sul potere magico di quella città – sono sempre rimasto affascinato da lui: dalla sua dote di capire la situazione al volo, di non inventare nulla, dalla sua capacità di raccontare una storia, una notizia, un personaggio. E poi, la sua storia personale, gli anni alla Legione straniera. È unico, punto e stop».

Gli citi Egisto Corradi e si commuove di nuovo. «Siete fortunati, a Parma, ad avere personaggi così. Campioni di giornalismo, campioni di umanità. Egisto è quello che mi ha consegnato il Premiolino, cosa devo dire di più? Mi vengono i brividi, adesso come quella sera di tanti anni fa».

LA REGINA DI GIORDANIA

«Io e Rania di Giordania siamo diventati amici quando suo marito Abdallah è diventato, contro ogni previsione, erede al trono. Era il 1999, il re Hussein – leader coraggioso, uomo straordinario – poco prima di morire ha silurato il fratello Hassan. Alla morte del re, mi sono intrufolato dicendo che ero al seguito di un notabile messicano e sono andato a fare le condoglianze alla vedova, la regina Noor, e a tutte le donne. Quel giorno ho visto Rania per la prima volta. Bellissima, splendida. Due giorni dopo, mi ha fatto cercare, dicendo che voleva conoscermi. Siamo diventati subito amici».

Lei lo porta in giro in Giordania, lui le propone una visita al «Corriere». «Cosa ne dice, maestà?». «Se me lo chiede lei, vuol dire che ne vale la pena. Vengo volentieri». «Al “Corriere” sono impazziti, hanno perfino fatto tinteggiare la facciata di via Solferino. Per me, una grande soddisfazione: sono orgoglioso della nostra amicizia, perché è una bella persona, semplice, con una grande bontà d’animo, una che parla con il cuore. Mi ricordo ancora, con commozione, che de Bortoli fece scrivere il pezzo sulla sua visita a Maria Grazia Cutuli, la bravissima collega che qualche mese dopo sarebbe stata uccisa vicino a Kabul. E quando Rania lo ha saputo mi ha chiamato e mi ha detto: “Mi ricordo bene di lei, la notizia mi ha molto colpito: posso scrivere un pensiero per il ‘Corriere’?”».

LE SORELLE SPAAK

«Catherine Spaak è stata una delle mie due ossessioni giovanili, con Laura Efrikian, l’ex moglie di Gianni Morandi. Un giorno ho conosciuto Agnès Spaak, la sorella di Catherine, ed è stato quasi amore a prima vista. Siamo stati insieme undici anni e mezzo. E ovviamente ho frequentato spesso anche sua sorella. Un giorno, dopo che aveva lasciato Johnny Dorelli, mi ha chiesto: “Secondo te, potrei fare la giornalista?”. Le ho proposto di fare un pezzo di prova: accidenti, era proprio bello, magari c’era qualche doppia sbagliata, ma c’era tanta sostanza. Ho proposto la collaborazione al direttore, Di Bella: entusiasta. Le ha affidato una rubrica di ritratti di politici. Qualcuno, durante l’intervista, le ha fatto una corte spietata. Io sono entrato in confidenza con lei, ho capito che era una donna profondamente infelice, vittima della solitudine».

PAPA FRANCESCO

«Qualsiasi cosa accada, ovunque io sia, a casa o in giro per il mondo, alla domenica devo essere davanti alla tv per sentire Francesco, non posso farne a meno. Se mi sono riavvicinato alla Chiesa è solo grazie a lui. Da ragazzo mi ero molto raffreddato, un po’ perché un curato aveva fatto delle avances a mia sorella, un po’ per quello che mi raccontava il mio zio saveriano: “Ne vedo tante, tu non hai idea”, mi ripeteva. Francesco è incredibile: per le cose che dice, per come le dice. Per le legnate che dà alla Chiesa, per la pulizia che sta facendo. Mi sono perfino comprato una Bibbia del 1600, in 14 volumi: cerco di capire chi cita Francesco e chi non cita. L’ho conosciuto, insieme a mia moglie. Ci terrei tantissimo a intervistarlo».

PREMI E RICONOSCIMENTI

Ciampi lo ha nominato Commendatore dell’Ordine della stella per la solidarietà italiana come residente all’estero, Napolitano Cavaliere della Repubblica; Albertini gli ha consegnato l’Ambrogino d’oro, Egisto Corradi il Premiolino («E Scalfari, nel farmi i complimenti, mi ha detto: “Si ricordi che anche a ‘Repubblica’ ci sono finestre ampie”. L’ho ringraziato: ma è sempre stato impossibile, per me, pensare di lasciare il “Corriere”»). Tanti altri premi, nella lunga carriera. L’ultimo, lo scorso novembre, quello che gli ha fatto più piacere: il premio dedicato a Paolo Borsellino. «Un riconoscimento che mi riempie di orgoglio, sia perché ero amico di Borsellino, così come di Falcone, sia perché la motivazione dice: “Al giornalista che in tutta la sua vita ha sempre tenuto la schiena dritta”. Mi fa arrossire, mi riempie di orgoglio».

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